Koo Jeong A – 4.3.3

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Ci è molto piaciuto un recente articolo di Hannah Ellis-Petersen, apparso sul “The Guardian” su Koo Jeong A a proposito del suo progetto di skatepark “Wheels Park” a Everton Park a Liverpool, in cui la giornalista racconta che quando contattò Koo Jeong A per intervistarla, l’artista rispose che era d’accordo, ma che non voleva essere audio registrata, suggerendo la presenza di una stenografa. Pertanto la giornalista prima di incontrarla in un bar di Kensigton insieme a Mary, una dattilografa con una piccola macchina da scrivere portatile, si era fatta l’idea che avrebbe incontrato un’artista diva piena di pretese, mentre si trovò di fronte l’opposto: una persona educatissima dalle maniere oltremodo gentili, che si scusò immediatamente per la richiesta curiosa dicendo: “Non sono stata educata a parlare di me perché gli Asiatici più o meno preferiscono limitarsi a ascoltare. E’ un atteggiamento differente. Ora è già cambiato, ma tendiamo ancora a considerare il valore che diamo a noi stessi qualcosa di intimo, che rifugge l’auto-promozione”. Questo aneddoto ripreso dal quotidiano britannico, ci è apparso utile perché ben esprime la personalità di Koo Jeong A, gentile e risoluta nel contempo circa scelte e, non necessariamente, motivazioni, rispetto a un lavoro che oggi ci sembra un mezzo, piuttosto che un fine, lasciando trasparire un’attitudine che rimanda a quella che in Oriente come in Occidente è chiamata la bios theoretikos, la vita contemplativa, che implica sempre un sentiero da percorrere e una trasformazione. Gli adepti novizi della scuola pitagorica dovevano tacere e ascoltare, considerate le cose più difficili da imparare, il maestro inoltre parlava nascosto dietro a una tenda per separare il sapere dalla persona che lo comunicava. L’ascolto della musica aveva la funzione di purificare gli adepti. Rischiando di esagerare diremmo che frequentando il lavoro di Koo Jeong A si ha un po’ l’impressione di avere a che fare con qualcosa di vagamente ieratico e oracolare, o comunque con una sorta di parola perduta a cui ci siamo disabituati. Sempre nel medesimo articolo menzionato all’inizio, Koo Jeong A afferma “Considero il lavoro come qualcosa di assimilabile al vestire i deceduti in splendore. E’ un’idea che arriva dal mio paese natale dove quando le persone muoiono si veste il cadavere, ma noi vestiamo i deceduti in splendore non come un cadavere”. Una frase che in qualche modo ci ha fatto pensare al concetto alla base di “Merda d’Artista” di Piero Manzoni, per cui l’opera era considerata, stiamo semplificando molto le diverse implicazioni, un gesto consumato, come la parte escrementizia e priva di valore di un processo esaurito. Per Koo Jeong A l’opera non sembra un gesto consumato, ma piuttosto qualcosa che si deve ricomporre ancora e sempre per affrontare un diverso cammino, che non immaginiamo sia esclusivamente di natura passiva e esegetica. Il tema dell’imprevedibilità sottesa nel lavoro di Koo Jeong A, su cui ha focalizzato Federico Nicolao nel saggio pubblicato sul catalogo “Constellation Congress”, pubblicato in occasione della personale di Koo Jeong A alla DIA Foundation di New York nel 2010, immaginiamo che sia l’accidente prevedibile e naturale di un qualunque viaggio, programmato nei dettagli più sottili e astrali.
“4.3.3” è il titolo della terza personale di Koo Jeong A da pinksummer e anche il titolo di un lavoro che sarà in mostra “4.3.3 una nave stampata in 3D con un sentiero”. L’artista ci ha raccontato in una e-mail, che il “cargo” bianco è la rappresentazione di un suo progetto irrealizzato: “Mi piacerebbe trasformare una petroliera in una destinazione culturale, e similmente che l’OPEC indebolita fosse rimpiazzata da un evento culturale”.
Per Lao Tzu la magia del vivere sta nel dirigere l’agire verso il non agire. Nell’azione non azione o nella non azione in movimento.
Nuotare insomma nella direzione della corrente, cogliendo l’evolversi degli eventi. Secondo l’Abate Constant (Levi), le operazioni magico alchemiche sono l’esercizio di un potere naturale della volontà umana. La magia può essere vista anche come una reinvenzione creativa della cultura.
Il cargo incontaminato di Koo Jeong A, appare come una sorta di magia simpatetica e propiziatoria che fa perno intorno alla parola cultura in rapporto al concetto di conoscenza.
Nella stessa e-mail su “4.3.3” Koo Jeong A proseguiva la spiegazione dell’opera citando alcuni passi di Roy Wagner in “L’invenzione della cultura”, nei quali l’antropologo parla di “antropologia alla rovescia” rispetto al culto sincretico e millenarista del movimento cargo. Il culto del cargo è apparso nelle società tribali melanesiane, dopo l’incontro con le popolazioni occidentali, soprattutto in seguito alla seconda guerra mondiale, quando le tribù indigene ebbero modo di osservare le navi e gli aerei giapponesi e statunitensi che trasportavano una grande quantità di merci per rifornire le basi militari. Alla fine della guerra le basi militari furono chiuse e cessò il rifornimento di merci e fu per attrarre quelle merci non cacciate e non coltivate, che le popolazioni native presero a riprodurre grossolanamente piste di atterraggio, aeroplani, radio, e a mimare il comportamento dei militari, per propiziare l’avvento di nuovi cargo, questa volta destinati al loro riscatto. Roy Wagner afferma: “Il simbolo del ‘cargo’, esattamente come quello della ‘cultura’, deriva la propria forza e il proprio senso dalle sue ambiguità: è il fenomeno enigmatico e seducente dei beni materiali dell’Occidente e allo stesso tempo rappresenta le profonde implicazioni umane che questi beni hanno per la mente indigena.” Di fatto per i nativi “cargo” (kago) significa beni manufatti, e in questo senso potrebbero essere considerati cultura, essendo che l’antropologia, “culto della cultura”, per trasformare in etnografie le popolazioni tribali, le viviseziona riducendole ai loro manufatti e alle tecniche di produzione, al loro cargo, buttando via le persone. Per i Melanesiani però il nostro cargo non è mai solo merce, ricchezza materiale, ma ha a che fare con la qualità della vita, con le implicazioni morali delle relazioni umane e, in questo senso, il cargo può essere considerato antitetico all’etimo elitario e sterile di cultura in uso in Occidente, incapace di creare conoscenza e di nutrirci spiritualmente elevandoci a un livello superiore, riscattando dalla guerra e dalle malattie croniche, come la depressione, la nostra società.
Koo Jeong A ci scrisse, anche per fermare un nostro tentativo barocco di interpretazione dei numeri “4.3.3”, che per lei e aggiungiamo noi, come per la cosmogonia taoista, nella sequenza di numeri da 0 a 9 è racchiusa la rappresentazione del mondo, la manifestazione dell’essere come dell’esseità.
Nella numerologia cinese i numeri pari sono yin mentre i dispari sono yang, yin e yang come pari e dispari, femminile e maschile, negativo e positivo sono opposti e complementari e danno origine al flusso di energia, alla vita.
Non siamo addestrate a trasformare i numeri in cose, ma supponiamo che la mostra “numerica” di Koo Jeong A sia un invito a lasciarsi attraversare dall’intelligenza bipolare e ciclica del mondo, uscendo dai limiti di un pensiero fideistico e materialistico che limita lo sviluppo spirituale.
Anche i pitagorici attribuivano alle cose un numero e un simbolo geometrico al numero, i numeri e i loro logoi o rapporti erano per quei saggi lo strumento fondamentale per far cessare la discordia tra gli uomini e stabilire l’armonia.
Lao Tzu nel Tao Te Ching scrive: “Una ruota è fatta di 30 raggi sensibili, ma gira in virtù del vuoto centrale non sensibile del mozzo. I vasi sono fatti di argilla sensibile, ma serve il loro cavo non sensibile. L’essenziale di una casa sono i fori non sensibili che costituiscono le porte e le finestre. L’efficacia, il risultato, provengono dal non sensibile”.
Sappiamo infine di questa mostra “4.3.3”, che un cargo costituito da 15 colli è partito da Londra per Genova.