Tomas Saraceno – Dark Cosmic Web

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Dark Cosmic Web, la personale di Tomás Saraceno per Pinksummer Goes to Rome, in Via del Vantaggio 17/A a Roma, appare come una lente gravitazionale che ci conduce lungo i filamenti della materia oscura, all’intersezione dei quali si ammassano galassie e mondi. Una ragnatela cosmica estesa miliardi di anni luce, la cui densità filamentosa invisibile, assimilata dall’artista alla serica struttura della ragnatela, costituisce la massa più cospicua di materia nel nostro universo. Un’architettura flessibile che trattiene i corpi celesti, opponendo resistenza all’energia oscura o “quintessenza”, così chiamata dagli astrofisici in onore del grande stagirita: Aristotele in questo modo definì l’etere rotante. Una forza antigravitazionale potente e misteriosa che sembra spingere l’universo verso la rarefazione accelerata, dal “Big Bang” al “Big Strip”, evento quest’ultimo, che provocherebbe la disgregazione di ogni concrezione materica, dal macro-cosmo dei mondi al micro-cosmo delle particelle, lasciando solo il buio e il freddo infiniti della stravagante bassa entropia centrifuga.
Anche nella mostra Dark Cosmic Web, come in tutta la sua opera, Saraceno con i suoi ibridi di ragnatela, effetti causati dalla collaborazione indotta in successione tra ragni di specie diversa, restituisce un modello olonomico del cosmo. Con l’introduzione del suono, presentato per la prima volta nella mostra personale Cosmic Jive (2014), al museo d’arte contemporanea di Villa Croce a Genova, accompagnata da un libro con contributi disciplinari altrettanto screziati, Saraceno ha trasformato lo spazio vuoto dell’universo, in un pieno pervasivo e denso d’informazione vibrazionale. Suoni che disintegrano il tempo lineare come si può distruggere l’illusione generata da un’interferenza, provenendo da un altrove così remoto in termini spazio-temporali, da apparire inimmaginabile. I suoni che Saraceno campiona per creare la sua “sinfonia mondana”, sono quelli carpiti, con strumenti sofisticati da biologo, dai ragni che, per scopi diversi, dalla caccia all’amore, pizzicano la ragnatela come fosse un’arpa, mixati poi, con quelli registrati delle agenzie spaziali. Proprio lo scorso febbraio l’osservatorio Ligo, ha rilevato per la prima volta un’onda gravitazionale, deformazioni della curva spazio-temporale previste dalla teoria della relatività generale di Einstein, proveniente dalla fusione di due buchi neri, avvenuta tra i 600 milioni e 1miliardo e 800 milioni di anni luce fa, il cui spiraleggiare vorticoso l’uno verso l’altro, è giunto a noi veicolato da un suono, che è stato comparato a un cinguettio in crescita fino al sopraggiungere della quiete dell’ atto consumato. Il suono farà vibrare anche la mostra “Dark Cosmic Web”, strappandoci per un istante dalle coordinate cartesiane, come dentro a un déjà vu che lascia intuire istantaneamente la multidimensionalità dell’universo, in cui passato presente e futuro si addensano di necessità, nel buco nero della contemporaneità.
Dopo questa introduzione che tratteggia rozzamente la personale di Tomás Saraceno da Pinksummer Goes to Rome, è con grande piacere e gratitudine che lasciamo la lettura dirigersi su un testo che tratterà finalmente in modo pertinente di materie e energie cosmiche oscure, a cui la mostra si congiunge con l’equilibrio e l’armonia anti-retorici che contraddistingue l’opera di Saraceno , scritto appositamente in occasione di Dark Cosmic Web dall’astrofisico Gianluca Masi.

Cogliamo infine l’occasione per ringraziare Ilaria Bozzi Ferri e Flavio Ferri che ci hanno condotto temporaneamente a Roma con Gate.

La materia cosmica, tra luci e ombre

“Non è tutto oro quello che luccica” (“All that glisters is not gold”). Così si legge, alla fine del XVI Secolo, nelle immortali pagine de “Il Mercante di Venezia” (atto secondo, scena settima) di Shakespeare (1564-1616), che riprende un detto probabilmente più antico. Il tutto mezzo secolo dopo che a Norimberga era stato dato alle stampe il prezioso “De revolutionibus orbium coelestium” di Copernico (1473-1543), con cui il grande polacco consegnò alla storia la propria visione eliocentrica del mondo. Nella seconda metà del XVII Secolo, poi, Isaac Newton (1642-1727) scolpirà nei suoi “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” le leggi della dinamica e la fondamentale, così nobile nel nome, legge della gravitazione universale.
Intorno all’interazione sovrana del cosmo, quella gravitazionale, si costruisce l’imponente edificio della teoria fisica probabilmente più celebre nel mondo moderno, quella della relatività generale, il cui padre Albert Einstein (1879-1955) è un’inconfutabile icona del nostro tempo, diremmo pure un personaggio à-la-page. Fisica della gravità, fisica dei quanti, big bang, espansione dell’Universo: argomenti questi che sono parte, almeno lessicalmente, della nostra cultura. Proprio nella cornice della relatività generale, la cosmologia costruisce, non senza sforzi, i suoi modelli e traccia i propri percorsi interpretativi dell’Universo fisico nel quale siamo immersi.
Un processo evolutivo, quello della nostra conoscenza del Cosmo, che tiene conto di nuovi dati, nuove evidenze, nuovi spunti, tutte le volte che strumenti sempre più audaci e tecnologicamente avanzati catturano qualche inedito dettaglio. Un processo che ci ha costretti molte volte, e senza dubbio continuerà a farlo, a rivedere le nostre convinzioni, le nostre teorie, in certi casi addirittura a smantellarle. Nulla di grave, beninteso. E’ questo il modo proprio d’incedere, quello naturale, della scienza: un suo punto di forza, non una sua debolezza. Si potrebbe quasi chiamare la sua “onestà”.
Non abbiamo però dimenticato che, nell’esordire con questo scritto, abbiamo scomodato il grande Shakespeare, apparentemente così lontano dalla scienza, citandone un frammento che è invero un proverbio. Un detto che stigmatizza il valore, perché talvolta evidentemente forviante, di ciò che brilla, di ciò che è luminoso. La citazione, ben lungi dal voler essere qui un monito o un suggerimento, vuole piuttosto dirigere nella giusta direzione queste nostre considerazioni scientifiche, che appaiono a margine dell’esposizione del lavoro di Tomás Saraceno.
Di quel motto a noi interessa il valore notoriamente attribuito a ciò che luccica, metafora dell’oro… ma non sempre, a quanto pare. Il grande poeta inglese, raccogliendo forse il monito di Esopo (620 a.C.?-564 a.C.), ci ricorda infatti che tale luccichìo può abbagliare, facendoci prendere lucciole per lanterne. Questa vocazione a dare grande valore a ciò che brilla la ritroviamo, su un terreno più propriamente astronomico, nelle parole di Sir Frederick William Herschel (1738-1822), il più grande astronomo osservatore di tutti i tempi, parole oggi assurte a motto della Royal Astronomical Society: “Quicquid nitet notandum”, “tutto ciò che brilla dovrebbe essere osservato”.
Ecco: chissà cosa penserebbero oggi i nostri padri, come riformulerebbero queste loro perle di saggezza se sapessero che molta della preziosissima materia che compone l’Universo non brilla, non luccica, non risplende. Non si propone proprio, sfacciatamente, come “oro gravitazionale”, mimetizzandosi piuttosto contro il velluto nero della notte cosmica. Essa è, semplicemente, materia oscura. C’è, ma non si fa vedere, almeno non ordinariamente, restando invisibile su tutto lo spettro elettromagnetico, luce compresa. Eppure si fa sentire, a modo suo.
Questo modernissimo tema della cosmologia contemporanea è nato circa un secolo fa. I prodromi più convincenti derivano dagli studi di Fritz Zwicky (1898-1974) sugli ammassi di galassie, le cui caratteristiche dinamiche sembravano denunciare una quantità di materia decisamente superiore a quella luminosa, osservabile telescopicamente. Invisibile, dunque, ma dagli effetti gravitazionali ben percettibili e che egli battezzò proprio materia oscura.
Più tardi, si rivelarono decisive le indagini di Vera Rubin (1928) sulle proprietà rotazionali delle stelle nelle galassie. Studiando quelle a spirale, emerse che le stelle periferiche di questi affascinanti sistemi stellari ruotavano attorno al nucleo della galassia ospite più velocemente di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi dalla distribuzione della materia luminosa costituente la galassia stessa, così come visibile al telescopio. Fu naturale invocare un alone di materia oscura tutt’intorno alla galassia, invisibile, ma capace di imprimere il moto rilevato per le stelle osservabili.
Ad oggi conosciamo poi un paio di galassie appena accennate dal punto di vista della materia ordinaria, che potrebbero essere perciò dominate dalla componente oscura.
Anche le fluttuazioni nella radiazione cosmica di fondo ne suggeriscono l’esistenza, al pari dell’importante caso degli ammassi di galassie.
Esse tendono ad organizzarsi in imponenti famiglie, gli ammassi, che arrivano anche a contarne molte migliaia. La massa di questi sistemi può essere misurata sperimentalmente in diversi modi, tra cui l’osservazione dell’emissione X del gas caldo presente nell’ammasso e lo studio della deflessione, da parte dei membri dell’ammasso, della luce proveniente da oggetti posti alle sue spalle. Un effetto, questo, chiamato lente gravitazionale, che si colloca nel quadro previsionale della relatività generale, che prevede la deflessione della luce quale conseguenza della curvatura dello spazio-tempo imposto dalla presenza di massa. Teoria che, in tempi recenti, ha visto infine realizzarsi l’attesa verifica sperimentale di un’altra sua suggestiva previsione, quella delle onde gravitazionali.
Le nostre attuali osservazioni suggeriscono che la materia oscura rappresenti circa il 25 percento della materia presente nell’Universo, contro un ben più modesto 4 percento della materia ordinaria, elettromagneticamente rivelabile. A questo, per completezza, occorre aggiungere il rimanente 70 percento circa, costituito dalla cosiddetta energia oscura, con cui diventerebbe possibile giustificare l’osservata espansione accelerata dell’Universo.
Se la presenza di questa materia oscura pare convincere una buona parte della comunità scientifica, resta del tutto da chiarire una grande questione: da cosa essa sia costituita. Qui le ipotesi si rincorrono, includendo buchi neri, stelle di neutroni e ipotetiche particelle non barioniche.
La ricchezza del tema è tale che la materia oscura viene tecnicamente distinta in cold, warm e hot. La cosmologia oggi considera come modello standard, ovvero come quello che meglio riassume le caratteristiche dell’Universo osservato, il cosiddetto modello Lambda-CDM, dove Lamba è la costante cosmologica (espressione dell’energia oscura) e CDM sta proprio per Cold Dark Matter.
La materia oscura, dunque, ha un ruolo essenziale nel tenere le fila di quelle macrostrutture che noi chiamiamo ammassi di galassie. Alle più vaste scale, essi sembrano come immersi in una sorta di struttura filamentosa, quasi una ragnatela cosmica, una intricata impalcatura entro cui, d’accordo con le simulazioni al calcolatore, stelle e galassie si formano e si evolvono. Tale ragnatela è principalmente costituita dalla materia oscura e le sue maglie si svelano sempre più nitidamente all’occhio indiscreto della scienza.
Lungo i fili di quella tela si arrampica, indomita, la nostra indole vocata alla conoscenza, all’esplorazione, alla scoperta. E se è vero, lo ribadiva Shakespeare, che non tutto ciò che luccica e brilla è ambasciatore di preziosi valori e rivelazioni, ciò che è oscuro, lungi dall’essere sinistro, può ben essere essenziale, indispensabile per l’Universo e fondamentale per noi per decifrarne le trame passate, presenti e future.

Gianluca Masi
Dottore di Ricerca in Astronomia
Virtual Telescope Project e Planetario di Roma