Superstudio – La Moglie di Lot

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Pinksummer: Abbiamo pensato tanto a come iniziare la conversazione con voi di Superstudio e alla fine invece partiremo con una domanda farlocca, muovendo da Firenze e da un fotomontaggio che non vi appartiene per niente.
L’edizione internazionale del “New York Times” ha dedicato un “Saturday Profile” a Matteo Renzi, sindaco votato del capoluogo toscano e premier incaricato (sembra che lo stato di eccezione esteso abbia reso superflua la piazza italiana), presentandolo come il fanciullo caravaggesco con il canestro di frutta, alle cui spalle si stempera Castel Sant’Angelo e il fiume Tevere di Corot, salutando il segretario del PD (center left) come portatore di energia e prosperità. Da Genova, non più il proletariato organizzato del Porto e dell’Ansaldo, ma Beppe Grillo, nuova icona dell’italico dissenso, vorrebbe opporre “Il grande rifiuto”. Al di là del valore del pensiero negativo, Marcuse aveva almeno visto “La fine dell’utopia”, come la liberazione da ogni forma di repressione e l’immaginazione al potere divenne la parola chiave dei movimenti studenteschi del ’68. Seppure tra i “radicali” non siete stati certo i più fiduciosi sotto il profilo antropologico, ritornando al futuro con la f maiuscola di Superstudio, sareste riusciti a aprire tanto la fantasia da sospettare che il tempo riuscisse a operare una desublimazione così pervicace e irragionevole sulla vita associata italiana, da consentire cotanta immaginazione al potere?

Superstudio (Adolfo Natalini, Piero Frassinelli, Cristiano Toraldo di Francia):
Provo a rispondere:
La realtà supera sempre la finzione.

P: La dialettica antinomica tra monumento e anti-monumento, sembra manifestare bene l’ambiguità della poesia spaziale di Superstudio tra sapere e fiction, tra conservazione e liberazione, tra disordine e confine cartesiano deformato dalla fuga prospettica. In questo senso è emblematica la comparazione tra il “ Monumento Continuo” e “La moglie di Lot” nei termini heideggeriani.
Il valore simbolico del “Monumento Continuo”, colosso che serpeggia nel mondo in cerca di un’ anima che non potrà trovare, essendo mera superficie senza alcuna dimensione interiore, tende a impersonare una cultura egemonica di stampo metafisico e anti-fenonomenologico, che Superstudio presenta come una sorta di a-priori , inteso come impossibilità progettuale, esaltandone il limite drammatico, come se si trattasse di un’esistenza che si perde tra gli enti (oggetti?) senza tenere di conto della fine.
“La moglie di Lot” presentata alla Biennale di Venezia del ’78 e poi perduta, riappare oggi con la sua poesia fragile, nomadica e transeunte, per raccontarci sempre che l’essere non può che essere esistenza e dunque storia e dunque finitudine e che ogni verità è figlia del proprio tempo. “La moglie di Lot” guarda alle possibilità in una dimensione intrinsecamente temporale, in cui il vuoto s’impone come anticipazione e di necessità come minaccia futura. La moglie di Lot con le sue cinque architetture di sale che si disciolgono nel tempo e nell’acqua di-svelando qualcosa, non si lascia definire, ma solo interpretare. “La moglie di Lot” ha la monumentalità orizzontale dell’esistenza e in questo senso può essere forse interpreta come anti-monumento.
Alla fine per Superstudio, monumento e anti-monumento, retorica e anti-retorica, “Monumento Continuo” e “La moglie di Lot” non coincidono? Non sono due manifestazioni dell’identico? Del resto può esistere la mera superficie anche solo trattando di rappresentazione?

S: Provo a rispondere:

Tra il 1969 e il 70 abbiamo elaborato un discorso al limite sulle possibilità dell’architettura come mezzo critico. Iniziando ad usare sistematicamente la ‘demonstratio per absurdum’ abbiamo prodotto un modello architettonico d’urbanizzazione totale. Questo lavoro e raccolto nel catalogo:

IL MONUMENTO CONTINUO, 1969

… abbiamo partecipato al concorso (e vinto un premio) con una architettura unica da prolungare su tutta la terra, un’architettura capace di dar forma a tutta la terra o a una sua piccola parte, un’architettura riconoscibile (anche da extraterrestri) come prodotto di civiltà. Un’architettura con cui occupare le zone di abitabilità ottimale lasciando libere tutte le altre…
Abbiamo presentato un “modello architettonico d’urbanizzazione totale” come logica risultante di una storia “orientata”: una storia dei monumenti iniziata con Stonehenge e che, passando per la Kaaba e il VAB, trovava il suo logico completamento con il “monumento continuo” (vedi a pag. 9).
E di questo enigmatico monumento continuo, di questo “monumento per esempio”, abbiamo presentato alcune foto a caso, abbastanza cartolinesche e quindi inquietanti come tutte le immagini di “saluti da…”. (Su questo lavoro, continuato e ampliato, stiamo preparando un film per una società televisiva americana).
ll monumento continuo è il polo estremo di una serie di operazioni progettuali coerenti che portiamo avanti di questi tempi, dal design all’urbanistica, come dimostrazioni di una teoria enunciata a priori: quella del disegno unico. Un disegno cioè che si trasporta rimanendo uguale a se stesso, cambiando scala o area semantica senza traumi o inconvenienti. Trovava il suo logico completamento con il “monumento continuo”.
Quest’immutabilità c’interessa: la ricerca di un’immagine “impassibile e inalterabile la cui statica perfezione muove il mondo attraverso l’amore che fa nascere per se”.
Attraverso una serie di operazioni mentali si può prender possesso della realtà e raggiungere cosi la serenità, l’unico stato libero da paure e angosce; in questo senso l’architettura è mezzo di comprensione del mondo e di autoconoscenza: Selbsterkenntnis durch Architektur.
Poi a Graz, con Mayr e Missoni abbiamo parlato molto di architettura come mezzo per mettere ordine, calma e serenità tra le cose. Abbiamo parlato di come sentirsi in equilibrio e discusso sul fatto che Freud sosteneva che il cubo è un sintomo di angoscia, e allora stiamo tutti in case d’angoscia, anche Wittgenstein che se n’era costruita una cubica per sé perché gli piacevano quelle di Loos …
A proposito di Wittgenstein: “come può l’uomo essere felice, se non può tener lontana la miseria di questo mondo? Mediante la vita di conoscenza. La vita di conoscenza é la vita che è felice nonostante la miseria del mondo. Felice è solo la vita che può rinunciare ai piaceri del mondo”. E anche: “V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico. L’impulso al mistico viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza”. Forza, un filosofo, abbiamo anche parlato molto di architettura della felicità, di una cosa che abbiamo chiamato Glückitektur o anche Happytecture, di un’architettura di libertà mentale, di usi disinibiti dell’intelligenza, di una serena fiducia nell’uso decontratto della mente…
Un’architettura libera dai complessi dell’“architettura costruita” (e questa è forse l’unica moderata utopia) per allargare il campo nelle due sole vere direzioni: al di fuori di noi (come dice Hollein) e al di dentro di noi (come da migliaia di anni ci consigliano gli indiani e magari anche S.Tommaso).
Abbiamo parlato di un’architettura di gesti immateriali, di un’architettura presente e invisibile da costruire un giorno da qualche parte possibilmente su tutta la terra, e da edificare adesso continuamente dentro di noi. Il più grande progetto è sempre progettarsi una vita intera sotto il segno della ragione, una vita con coordinate precise, scelte e serenamente accettate, con limiti co-me pietre angolari. Costruire noi stessi con una serie di gesti primari, di gesti magici calibrati e lucidi, per mezzo di un’architettura della chiarezza e della lucidità, non della crudele intelligenza ma della comprensione di tutte le ragioni.
Salvarsi l’anima attraverso la chiarezza, privando l’architettura delle sovrastrutture (giustificazioni e mistificazioni) spaziali-estetiche-economiche-funzionali e rivalutandone l’essenza rappresentativa conoscitiva e ordinatrice.
In questo modo l’architettura come struttura operativa si sovrappone alla natura naturans e alla natura naturata ordinandone i materiali con gli utensili della storia e della tecnica.
Ora elaboriamo progetti concentrando i nostri sforzi sulla definizione di un’architettura come immagine, come costruzione prettamente mentale capace di risolvere in se stessa le contraddizioni tra le cose e l’idea delle cose.
Così a Graz non potevamo più esporre progetti, discorsi su altri discorsi, ma solo architettura.
Abbiamo costruito la Stanza di Graz. E basta.

Da: “Superstudio: lettera da Graz/Trigon 69” Domus 481, 1969

DA: “IL MONUMENTO CONTINUO” UN MODELLO ARCHITETTONICO DI URBANIZZAZIONE TOTALE – 1969

Per chi come noi sia convinto che l’architettura è uno dei pochi mezzi per rendere visibile in terra l’ordine cosmico, per porre ordine tra le cose e soprattutto per affermare la capacità umana di agire secondo ragione, è “moderata utopia” ipotizzare un futuro prossimo in cui tutta l’architettura sia prodotta da un unico atto, da un solo “disegno” capace di chiarire, una volta per tutte, i motivi che hanno spinto l’uomo a innalzare dolmen, menhir, piramidi, e a tracciare città quadrate, circolari, stellari e infine a segnare (ultima ratio) una linea bianca nel deserto.
La grande muraglia cinese, il vallo d’Adriano, le autostrade, come i paralleli e i meridiani, sono i segni tangibili della nostra comprensione della terra.
Crediamo in un futuro di “architettura ritrovata”, in un futuro in cui l’architettura riprenda i suo pieni poteri abbandonando ogni sua ambigua designazione e ponendosi come unica alternativa alla natura. Nel binomio natura naturans e natura naturata scegliamo il secondo termine.
Eliminando miraggi e fate morgane di architetture spontanee, architetture della sensibilità, architetture senza architetti, architetture biologiche e fantastiche, ci dirigiamo verso il “monumento continuo”: un’architettura tutta egualmente emergente in un unico ambiente continuo: la terra resa omogenea dalla tecnica, dalla cultura e da tutti gli altri imperialismi.
Ci inseriamo in una lunga storia di pietre nere, di sassi caduti dal cielo o eretti in terra: meteoriti, dolmen, obelischi. Assi cosmici, elementi vitali, elementi riproduttivi dei rapporti cielo-terra, testimonianze di nozze avvenute, tavole della legge, atti finali di drammi a lunghezze variabili.
Dalla sacra Kaaba al Vertical Assembly Building.
Un blocco squadrato di pietra poggiato sul terreno è un atto primario, è una testimonianza di architettura come nodo di relazioni tra tecnologia sacralità utilitarismo; sottintende l’uomo la mac-china le strutture razionali e la storia.
Il blocco squadrato è il primo atto e l’ultimo nella storia delle idee di architettura.
L’architettura diviene un oggetto chiuso e immobile che non rimanda ad altro se non a sè stesso e
all’uso della ragione.

Da: “Superstudio: discorsi per immagini” Domus 481, 1969

La Moglie di Lot – descrizione

Una struttura metallica zincata, simile a un tavolo (251 x 56 x 100 cm), sorregge cinque piccole architetture di sale in altrettante vasche di zinco.
Una seconda struttura metallica (56 x 56 x 156 cm) scorre sulla struttura principale e porta una piramide rovesciata di zinco contenente acqua. L’acqua scorre lentamente in un tubo da fleboclisi e scendendo goccia a goccia sulla prima architettura di sale la scioglie.
Poi la struttura scorrevole si sposta sulla seconda e cosi via. La prima architettura è una piramide. Quando l’acqua ha sciolto il sale, appare una struttura piramidale di fili di ferro.
La seconda è un anfiteatro e, disciolto il sale, mostra un insediamento abitativo (in refrattario).
La terza è una cattedrale e, disciolto il sale, mostra un guscio d’uovo, perfetto e vuoto.
La quarta è il Palazzo di Versailles e, disciolto il sale, mostra la brioche di Maria Antonietta.
La quinta è il Padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier e, disciolto il sale, rivela una targa d’ottone con sopra scritto: “L’unica architettura sarà la nostra vita”.

Mentre il sale precipita al fondo delle vasche, l’acqua salmastra scorrendo in appositi tubi si raccoglie in una vasca sotto la struttura principale.
Nella vasca si trova una targa d’ottone esplicativa che dice appunto:

Superstudio, Firenze/Venezia, maggio/giugno 1978
LA MOGLIE DI LOT
L’architettura sta al tempo come il sale sta all’acqua.

L’acqua salmastra la ricopre lentamente e, evaporata l’acqua, il sale offusca la targa rendendola scarsamente leggibile.
Le architetture di sale, sciogliendosi, rivelano al loro interno oggetti che rappresentano ciò in cui il tempo le ha trasformate.

L’architettura della storia mostra nel tempo solo il suo aspetto simbolico; il tempo di erosione della fase funzionale è estremamente ridotto rispetto a quello della fase simbolica. L’architettura della storia è un’architettura di simboli e rappresentazioni, la sua funzione d’uso è contingente e deperibile. D’altra parte l’architettura può ritrovare un uso, in tempi e condizioni imprevisti al progettista, ad opera dei propri abitatori.
L’architetto ha scelto di esprimere la funzione simbolica dell’architettura mentre solo gli abitanti ne possono realmente progettare la funzione abitativa.
Quelli che vogliono costruire si guardano intorno e davanti: così si lasciano pur sempre alle spalle gli architetti trasformati in statue di sale.

Da: “La moglie di Lot e la coscienza di Zeno” Biennale di Venezia, 1978

P: A proposito di “paper achitecture”, tra cui arbitrariamente annoveriamo “Le 12 città ideali”, in particolare “Barnum Jr.’s City” che sembra l’anticipazione di un parco a tema e sappiamo contenere “le riproduzioni di tutti i maggiori monumenti, dall’Empire State Building alla Tour Eiffel. Al Colosseo (ricostruito nell’aspetto originario)” e “La Moglie di Lot” in cui Superstudio trasforma e ri-presenta in forma di statue di sale per prepararle alla distruzione senza senso di colpa apparente: il Padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier , Versailles, la basilica, l’anfiteatro e la piramide. Ebbene ritornando alla “paper architecture”, immaginiamo che una strana soteriologia diacronica di natura infrastrutturale, accomuni la pratica mentale di Superstudio, quella di Etienne-Louis Boullée (pensiamo soprattutto al progetto della biblioteca reale), al post-modernismo sorto nelle ultime decadi dell’ Unione Sovietica, al tempo di Gorbachev, della Perestroika e della Glasnost. In specifico guardiamo dentro al “Colombarium Architecturae (Museum of Dissapearing Buildings)” disegnato nel 1984 da Alexander Brodsky e Ilya Utkin.
La biblioteca mai realizzata di Boullée è uno spazio metafisico, non certo luogo funzionale o quantomeno accogliente per lo studio, un monumento al sapere, piuttosto che un tempio del sapere. Il colombario sovietico di Brodski e Utkin è un’esplorazione utopica al negativo, per non parlare delle vostre di esplorazioni utopiche apocalittiche, seppure trascritte in un linguaggio sincronico alla neo-avanguardia futurologa e tecnolatra dei “Swinging Sixties”.
Queste architetture di carta sono impossibilitate a preservare o a museificare qualcosa, sono strutture della memoria e della nostalgia, forse anche del desiderio, perché sembrano dialogare con una qualche forma di distruzione. Sono arche di Noè costruite in vista di una sparizione. Sono strutture necessariamente ciniche, perché già si sa che con l’urgenza dell’oblio alla porta, si potranno salvare solo semi/segni, a-sostanziali come l’aria che respiriamo senza vedere.
Ma il neoclassicismo e il post-modernismo non sono informati dalla memoria e dalla nostalgia, oltre che dal cinismo/eclettismo linguistico? Che Superstudio sia post-modernismo fiorentino (considerando l’incidenza del genius loci) ante-litteram?

S: Provo a rispondere:

LA TREDICESIMA CITTA’.

La sua forma e le sue dimensioni sono indefinite e inconoscibili. Taluni la ritengono un quadrato perfetto, altri un esadodecaedro, altri un quadrato infinito senz’angoli. Per alcuni è un enorme solido, per altri una figura bidimensionale, per altri infine è una figura di geometria pluridimensionale. I più la definiscono proiezione di un solido invisibile, quale ombra di un cristallo trasparentissimo posto tra noi e la luce, ombra che si forma solo in particolari circostanze, quando il cristallo, muovendosi, viene ad assumere proprietà polarizzanti o quando il cristallo, semplicemente, oppone la sua maggior dimensione alla luce. D’altronde, se il problema del passaggio dalla proiezione all’oggetto poteva esser risolto geometricamente, la sconosciuta permeabilità alla luce dell’oggetto e il dubbio che il piano di proiezione non fosse perfetto, rendevano la conoscenza della vera forma sempre più improbabile. L’uso dei mezzi d’indagine più progrediti non era precluso agli osservatori: si imponeva solo che la stazione osservante rimanesse immobile in un punto scelto e s’impedivano le comunicazioni immediate tra stazioni diverse. Tali comunicazioni si permettevano solo dopo un certo intervallo di tempo e usando canali prestabiliti. Quanto l’intervallo e i canali deformassero i messaggi era sconosciuto. E d’altronde la coincidenza o la differenza di diverse osservazioni poteva dipendere sia dalla loro sostanza che dai mezzi con cui si trasmettevano…
Non era però quello della forma l’unico problema di tale invisibile entità. Si sapeva che nella tredicesima città si era sviluppata una forma ideale di società e di vita. Si conoscevano frammentari racconti sui suoi abitanti. Alcuni che un tempo vi vissero ed altri che un giorno vi vivranno s’incontravano ancora in un immenso spiazzo in campagna: tale spiazzo conservava ancora tracce regolari come di canali, vie o coltivazioni. Gli urti e gli altri erano convinti che quello fosse stato il luogo da cui la tredicesima città si era staccata per divenire trasparente e invisibile. Me a coloro che vi vissero gli anni confondevano i ricordi; a coloro che vi vivranno la speranza alterava le descrizioni e i progetti. Si limitavano così ad incontrarsi nella pianura, cercando nelle trecce certezza e conferme. L’unica realtà era un’erba rada e improvvisa, come grano appena spuntato che perennemente velava di lanugine verde una terra grigia simile a sabbia. Tele terra non si ritrovava in altri luoghi, poteva esser stata generata da trasformazioni chimiche dei materiali della città scomparsa, come poteva l’erba esser generata in tale aspetto dall’ombra leggera che, più spesso che in altri luoghi, la città invisibile vi lasciava.
Nient’altro restava di tracce visibili: solo un vago senso di malessere o di frustrazione negli individui che lì convenivano. I loro incontri finivano spesso senza nemmeno una parola. Un po’ per volta rimasero solo in pochi nella pianura, tutti gli altri essendo troppo occupati a costruire o ad occupare citta pesantissime e impossibili. Cosi nel luogo supposto d’origine della tredicesima città, iniziarono a interrogarsi sul senso delle memorie e delle profezie, cercando di ricostruire la ragione dei loro ricordi e progetti di quella e delle precedenti dodici città.
Lentamente compresero che non si trattava di supposizioni o di piani, nè erano descrizioni trasmesse in un bizzarro codice: non erano neppure metafore o parabole. Aggiunsero così alla fine una nota (ritrovabile solo in questa edizione) sul come e perchè di tali racconti. Il testo della nota era “Vi restituiamo i dati che ci avete fornito”.

S: Insomma continuando a rispondere:
quello che volevo (volevamo) dire con Superstudio (l’ho) l’abbiamo già detto. Basta guardare nei libri nelle riviste o nei fondi d’archivio. A distanza di quarant’anni potrei (potremmo) raccontare quelle storie in maniera diversa. Le costruzioni e i progetti che ho fatto dopo il 1978 potrebbero essere questo racconto in prima persona, ma le pagine tratte da “Superstudio storie con figure 1966-73” e dal libro bianco della Biennale 1978 sono una risposta più precisa.
Ma potete anche pensare che i nostri testi (scritti e disegni) erano le domande e che le vostre domande sono risposte date quarant’anni dopo.

Adolfo Natalini, 4 marzo 2014

Postscriptum
Alla domanda “cosa sono gli istogrammi?” risponderei con 4.1 Istogrammi di architettura 1969 e se mi venisse chiesto di parlare degli “Atti Fondamentali”, ecco la risposta “Atti Fondamentali, 1971-1973” Casabella 367, 1972 ma non me l’avete chiesto – grazie – va bene così!

P: Vi avremmo mandato oggi la domanda “cosa sono gli istogrammi”, mettendo in relazione gli Istogrammi agli “Atti Fondamentali”, vita, educazione, amore, cerimonia, morte. Il riduzionismo più radicale che si manifesta in forme diverse, altro che post-modernismo, ammesso che queste categorie, in cui è agevole sigillare pensieri e attitudini come il cibo dentro ai sottovuoti, esistano. Focault affermava che l’uomo è una invenzione recente, è una sorta di piega nel nostro sapere che sparirà non appena avremo trovato una nuova forma al di là, forse, di ogni rappresentazione.
E comunque nel 2004 pinksummer iniziò la conversazione/comunicato stampa con Tomas Saraceno e Luca Cerizza per la prima mostra in Italia di Tomas Saraceno così: “Superstudio nel 1970 scrivevano ‘In quegli anni stava diventando molto chiaro che continuare a disegnare arredi, oggetti e simili decorazioni domestiche non era la soluzione ai problemi del vivere… e ancora meno avrebbe potuto servire a salvare la propria anima’”.
Siamo felici di ri-presentare “La moglie di Lot” di Superstudio da pinksummer.

S:
ISTOGRAMMI D’ARCHITETTURA, 1969

“ln quegli anni poi divenne molto chiaro che continuare a disegnare mobili oggetti e simili casalinghe decorazioni non era la soluzione dei problemi dell’abitare e nemmeno di quelli della vita e tantomeno serviva a salvarsi l’anima…
Divenne anche chiaro come nessuna beatificazione o cosmesi era bastante a rimediare i danni del tempo, gli errori dell’uomo e le bestialità dell’architettura… Il problema quindi era quello di distaccarsi sempre più da tali attività del design adottando magari la teoria del minimo sforzo in un processo riduttivo generale. Preparammo un catalogo di diagrammi tridimensionali non continui, un catalogo d’istograrnmi d’architettura con riferimento a un reticolo trasportabile in aree o scale diverse per l’edificazione di una natura serena e immobile in cui finalmente riconoscersi. Dal catalogo degli istogrammi sono stati in seguito generati senza sforzo oggetti mobili, environments, architetture… Ma di tutte queste cose non ce ne importa molto, né molto ce n’è mai importato. La superficie di tali istogrammi era omogenea ed isotropa: ogni problema spaziale ed ogni problema di sensibilità essendo accuratamente stato rimosso. Gli istogrammi si chiamavano anche ‘Le Tombe degli Architetti’”.

ATTI FONDAMENTALI, l971-1973

Dal 21 marzo 1971 al 20 marzo 1973 abbiamo lavorato a una serie di ricerche sugli Atti Fonda- mentali, incentrate sui rapporti tra l’Architettura (come formalizzazione cosciente del pianeta) e la vita umana. I film che abbiamo prodotto costituiscono una propaganda di idee al di fuori dei canali tipici della disciplina architettonica. I cinque film sono:

VITA
EDUCAZIONE
CERIMONIA
AMORE
MORTE

I grandi temi, i temi fondamentali della nostra vita, non sono mai toccati dall’architettura. L’architettura se ne sta ai margini, ed interviene solo ad un certo punto del processo di relazione, quando di solito tutto il comportamento è già stato codificato, fornendo risposte a problemi rigidamente posti. Anche se le sue risposte sono aberranti od eversive, la logica della loro produzione e del loro consumo evita ogni reale sconvolgimento. L’architettura non propone comportamenti alternativi poiché usa strumenti messi a punto dal sistema per evitare ogni sostanziale deviazione.
Cosi l’abitazione operaia e la villa signorile seguono gli stessi modelli e l’architetto radicale e l’architetto accademico si equivalgono: la differenza sta solo nelle quantità in gioco; le decisioni sulla qualità del vivere sono già state prese.
Accettando il suo ruolo l’architetto si rende complice della macchinazione del sistema di cui cerca il consenso. L’architetto d’avanguardia poi ricopre uno dei ruoli più rigidamente fissati, un po’ come I’amoroso giovane”.
A questo punto, l’architetto, riconoscendo in sé e nella sua opera connotazioni di cosmesi, environmental pollution e consolatrix afflictorurn, si blocca di colpo sulla sua strada ben pavimentata. Diviene allora un atto di coerenza, o un ultimo tentativo di salvezza, concentrarsi sulla redefinizione degli atti primari, ed esaminare in prima istanza quali sono le relazioni tra l’architettura e tali atti. Tale operazione diviene una terapia per la rimozione dell’archimanie…
Il tentativo di una rifondazione antropologica e filosofica dell’architettura diviene il centro dei nostri processi riduttivi.

Da Casabella 367, 1972