Luca Trevisani- The truth is that the truth changes

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Pinksummer: Molto tempo fa, almeno ci sembra molto tempo fa, in occasione della tua prima personale da pinksummer, a proposito di “Clinamen”, così chiamasti quel video bellissimo, ci facesti provare a dissertare di equilibrio e di equilibri, muovendo dalla declinazione logico-razionale, fortemente aporetica, che Democrito aveva introdotto per giustificare l’origine aggregativa del suo mondo atomico (atomistico?). Un concetto che di fatto faceva acqua da tutte le parti, e a pagarne le conseguenze fu la sensibilità di Lucrezio, che, incappando in un filtro d’amore, proprio mentre stava intessendo il De Rerum Natura, un elogio poetico alla cosmologia democritea, diventò folle e si tolse la vita.
La tua predilezione ben riposta ci fece raggiungere Francesco Lo Savio, il quale di clinamen non parlò mai, ma sicuramente tentò di proteggersi in una declinazione razionale della vita, finendo addirittura per suicidarsi in un oggetto architettonico razionalista di Le Courbusier.
Nel 2006 si tenne quella tua personale, davvero molto tempo fa, considerando l’obsolescenza dei tempi, se ci pensi allora si poteva ancora parlare, imitando la prosopopea baumaniana un po’ modaiola, di società liquida, di provvisorietà nei rapporti sociali, di flessibilità rispetto al lavoro, perché i subprime, anche se si avvertiva che erano già entrati nel nostro orizzonte, nessuno ancora li aveva visti. Tu, allora, e per età e per spirito del tempo, avevi più dimestichezza con l’estetica slide e, a ben pensarci, avresti potuto prendere il tuo skate per scivolare via almeno da queste nostre ulteriori curiosità, ci poteva stare, ma in fondo quella tua mostra di slide non aveva proprio nulla e quindi ci risiamo, dopo tre anni giusti giusti.
“Truth is that the truth changes” (“la verità è che la verità cambia”), è l’aforisma che hai scelto per la tua seconda personale da pinksummer, non certamente la tua seconda personale in assoluto essendo che il tuo curriculum si è addensato parecchio nel frattempo. Un titolo che enuncia l’eraclitismo latente (nemmeno troppo latente) della tua ricerca, eppure quello che ci sembra di amare di più nel tuo lavoro è proprio quel lasciare intravedere la tensione verso una verità ultima, che scappi dal divenire del tempo e dal relativismo stesso dell’individualità scissa e conflittuale che di quel tempo, di necessità, non può che scorgere un segmento.
La lotta contro il disequilibrio delle cose e degli esseri che porti avanti tende ad asciugare l’umidità endogena alla pluralità, ma non ti riesce mai. L’equilibrio formale che trovi per approssimazione, anche nelle fasi che preferiamo del tuo lavoro, quelle implosive, risucchianti in un punto ordinato, è sempre perfettibile, foriero di instabilità, non trova la fermezza definitiva dell’essere, la sua profonda e esclusiva assennatezza.
A volte si dovrebbe credere a una tua ammissione aprioristica di fallimento, a un’inutile fatica di Sisifo, oppure, si potrebbe ipotizzare che tu creda che possa esistere un qualche luogo, dentro o fuori dalla mente, in cui le essenze riescano a trovare una quiete appropriata, a cui ambisci, nascondendo dietro alla sobrietà formale che ti contraddistingue ogni frustrazione. Pensiamo che l’idea di equilibrio nel tuo percorso assuma le stesse connotazioni di verità: è possibile che essa diventi per qualche strana alchimia un suo sinonimo oggettivo dentro al tuo sceverare?

Luca Trevisani: Si, è vero. La verità è come l’equilibrio, mutevole e viva, difficile, instabile. Noi siamo vivi e ci ridefiniamo di continuo: anche un corpo morto non è mai uguale a se stesso. Io, me, il cosiddetto consorzio sociale, la legge morale dentro di me, e il cielo stellato sopra di noi. Le stelle non sono mai sempre allo stesso posto. Come minimo quello che vediamo nel cielo è successo circa otto minuti fa …
Niente è stabile, noi cambiamo e la verità con noi: Veritas filia temporis.
Così vanno le cose, così devo andare, cantavano anni fa. Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, né prevedere i cambiamenti di costume. Ladies and gentlemen we are floating in space. Per questo il molle vince sul rigido, la cera sul marmo (aveva ragione Medardo) e l’edera sul cemento.
Non so se si tratti di lotta con il disequilibrio, ma forse di stadi di definizione. Di certo la salvezza non è nella forma chiusa delle cose. Dobbiamo arrenderci al logorio delle cose. È meglio dimenticarsi i confini tra le singole opere, come i confini tra i singoli pensieri, non esistono più immagini, ma solo catene di immagini. Un ritmo, una canzone.
Se devo definire il mio lavoro al momento, le convinzioni che lo guidano, e che definiscono la mostra da pinksummer, parlerei di coltivazione.
Mi spiego.
Dico coltivare partendo dal “Candide” di Voltaire, che si conclude con questa frase: “Il faut cultiver notre jardin”, dobbiamo coltivare il nostro giardino.
In uno spazio stabile, definitivo, marmoreo, non c’è bisogno di coltivare. Noi, invece, siamo chiamati a coltivare, a prenderci cura.
Il mondo delle pluralità pian piano prende forma solo grazie al potere del nostro agire.
Da cosa nasce cosa, diceva Bruno.
Oppure, detto in altro modo, nulla si crea e nulla si distrugge.
Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si modifica, incessantemente. Identity is a cloud, e non sappiamo nemmeno domani che tempo farà.
Colorare con dei fumogeni non mi interessa per l’automaticità del gesto, quella la lasciamo ad altri, venuti prima di me. Colorare col fumogeno è come colorare con il vento, se esistono vettori e non forze, allora ha senso dare forza a questi vettori, e colorarli.

P: Tu dici che il molle vince sul rigido, che la cera vince sul marmo, l’edera sul cemento. Forse hai ragione, Luca Cerizza, in un testo scritto per te, ipotizza verosimilmente la fine dell’angolo retto, perché in natura non esistono angoli retti. In Italia, sotto il profilo politico, questa plasticità delle forme un po’ estrema (cominciando da quelle asservite delle “vallette”) si sta già attuando da un pezzo e non ci piace.
Tuttavia, sul fatto che la cera vinca sul marmo rimaniamo un poco perplesse. Giulio Carlo Argan (una nostra amica che insegna storia dell’arte all’università di Genova, ci ha detto che “l’Argan” come manuale non è più in uso perché i ragazzi non lo capiscono, se pensiamo che negli anni ’70 Argan fu eletto sindaco di Roma) insegnava che Medardo Rosso e Auguste Rodin erano due grandi scultori, ma che alla fine fu Degas a ristrutturare, tu diresti ridefinire, l’arte plastica, forse perché essendo pittore la utilizzava semplicemente come una sorta di laboratorio di analisi, senza enfasi. Rodin e Rosso pensavano invece alla dignità letteraria della materia e, se uno era ossessionato dall’idea di monumento, l’altro lo era da quella di anti-monumento. La cera era utile a Rosso per visualizzare un processo induttivo che implicava l’apertura di una forma chiusa allo spazio, all’atmosfera, mantenendo nel contempo integro il gusto per l’aneddoto. Riteniamo, sicuramente a torto, che per Michelangiolo marmo o cera sarebbe stato lo stesso, forse la cera avrebbe semplificato le cose considerando che deduceva la forma dentro la materia, limitandosi a eliminare il superfluo. Anche quando l’oppressione della materia si era fatta greve, come nel caso della Pietà Rondanini, Michelangiolo riuscì comunque a rendere percepibile il vettore orientato sull’ascesa.
Rispetto al tuo dipingere con i fumogeni, considerando l’indefinitezza della tela, per noi è più facile immaginare il vento come un vettore piuttosto che come un colore. Il vettore-vento, un segmento (frammento?) orientato, potrebbe allora sussumere il colore dei tuoi fumogeni e in questo senso essere rafforzato, reso percepibile, innanzi tutto alla tua coscienza, in secondo luogo all’altro o magari contemporaneamente. Questo non significa creare un confine? L’idea di confine ci sembra una costante della tua ricerca. Coltivare il proprio giardino, prendersi cura di, non significa delimitare e Voltaire, d’altra parte, non era un lume?
La coltivazione non segna il passaggio dalla società matriarcale nomadica, legata al flusso, alla totalità, a quella patriarcale della cultura, informata sugli angoli retti, sui dogmi, sull’ideale di potenza, quella per intenderci che in epoca più recente ha steso il cemento sull’edera? Il passaggio dalla natura al logos, non certo dal caos al cosmo perché quello avvenne prima e non ci riguarda, non ci ha insegnato che stabilire dei confini, delle proprietà, è utile alla sopravvivenza?

L.T.: Nominavo Medardo un po’ per gioco. Mi sento scultore, sì, ma non in quel senso. La storia delle idee mi appassiona più della storia della scultura, quella mi piace saccheggiarla per i miei fini. Per i lavori in mostra ho lavorato con cera e cartapesta, selezionando materiali precari. Mi piace l’idea che si blocchino in delle forme per del tempo, e poi tornino in ciclo. La cera si scioglierà e la cartapesta tornerà a essere qualcosa d’altro. Forse. Prima o poi.
Lo so bene, il vento è un vettore, non un colore, certo. Quello che dico, appunto, è che è interessante dotare di colore un vettore. Valorizzarlo.
Coltivare nel senso di prendersi cura, non conduce per forza al cemento. Non corriamo troppo. I concetti dobbiamo usarli come strumenti, ma non strumentalizzarli. Tutto il mio lavoro si basa sul fornire concetti base, strumenti, leve per muovere le cose, ma se li banalizziamo, se cerchiamo una loro applicazione pratica immediata, tutto si sfalda. Le idee servono per pensare, devono tradursi in azione, sì, ma con calma, devono maturare.
Si tratta di non temere le astrazioni, anche se apparentemente possono sembrare insensate, perché sono un ottimo strumento con cui guardare il mondo.
L’unico modo per capire le cose è farne un modellino da poter tenere in mano, per estraniarle dal quotidiano.

P: Uno sguardo contemplativo è uno sguardo che trova la bellezza senza cercarla?

L.T.: Dall’osservare il volo degli uccelli, questa voce augurale passo al significato più generale di sollevare lo sguardo e il pensiero verso una cosa, che desti meraviglia o riverenza, a cui dare attenzione con atto prolungato e intenso. Rimirare, osservare intensamente. Fissare tanto il pensiero nelle cose divine, che non si curi altro nel mondo, e quelle sole ci siano di consolazione e diletto.
Non parlerei però di bellezza. Affatto.
Un vecchio errore è la ricerca della bellezza. La bellezza non può essere programmata, essendo sempre l’effetto secondario di altre ricerche. Bisogna parlare con le immagini, non con le immagini belle, ma con le immagini utili; non devono servire parole a sorreggerle, devono vivere da sole. Le parole sono la genealogia delle immagini e delle forme, che parlano da sole. Wystan Auden diceva che il modo migliore per ascoltare la messa è quello di non conoscere la lingua in cui viene celebrata.

P: Nei tuoi appunti ci parlasti di butterfly farm, di greenhouse, di energie ateleologiche, del modulo organico di Alvar Aalto, del suo concetto di spazio organico, di ciò che avviene di nascosto sulla spiaggia di Skagen. Cosa porterai da pinksummer? Come articolerai il tuo progetto?

L. T.: La mostra è una sinfonia, orchestrata da presenze bi e tridimensionali, che trova il suo climax in un film, che si chiamerà “Vodorosli”. Le alghe marine ghiacciate, in russo si dicono vodorosli.
Sono partito da un modulo ereditato da Alvar Aalto, ho riportato il pensiero organico a casa, dentro all’orto botanico di Genova, e l’ho trattato come una pianta.
Le convinzioni di Aalto in uno spazio organico diventano lo spunto per un sistema formale mobile, vivo, costruito e animato dentro scatole trasparenti. Se mi interessa dare forma a un sistema e vedere come si regolamenta, come trova un equilibrio tra le sue parti, lo faccio all’interno di scatole trasparenti, coltivandolo in vitro.
Mi interessava vedere dove il confine e il disegno dell’uomo si impongono sulla natura, e dove le leggi di natura vincono. Sottoporre le forme pure alla corruzione, al dinamismo naturale. Ho ridisegnato dei frangiflutti, colmato il vuoto tra i sassi di un muro a secco, colorato con dei fumogeni, bloccato cotiledoni nella cera …
Si tratta di energie, ma di energie senza utilità. Energie pure. Di stati di indeterminatezza, di definizione, di realtà aperte al flusso, alla propria determinazione tramite il mutamento.

Si ringrazia l’Orto Botanico dell’Università di Genova.