Tomas Saraceno – On Air

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Pinksummer presenta Tomas Saraceno, invitato da Luca Cerizza

Conversazione con Tomas Saraceno, Luca Cerizza e Pinksummer

Nota di pinksummer
L’intervista, nata per il comunicato, si è dilatata a dismisura; credendo che possa offrire spunti interessanti sia rispetto all’approccio con il lavoro di Tomas Saraceno, sia al connubio arte/architettura e ai suoi risvolti di natura politica e sociale, abbiamo deciso di lasciarla integra.

Pinksummer: Superstudio nel 1970 scrivevano “In quegli anni stava diventando molto chiaro che continuare a disegnare arredi, oggetti e simili decorazioni domestiche non era la soluzione ai problemi del vivere… e ancora meno avrebbe potuto servire a salvare la propria anima”. L’architettura “radicale” di gruppi quali Superstudio, Archizoom e altri collettivi, nati nella seconda metà degli anni’60, si svincola dal pragmatismo della disciplina per progettare una filosofia di vita. Nel 1973 sempre Superstudio dichiarava: “L’architettura non tocca mai grandi temi, I temi fondamentali delle nostre vite. L’architettura resta all’angolo della nostra vita, e interviene solo ad un certo punto del processo, in genere quando il comportamento è già stato codificato”. Tu sei un architetto che fa l’artista o un artista con la formazione di architetto: pensi che l’arte la cui finalità tout court, ammesso che si possa definire finalità, è quella di informare idee, sia più adatta a sceverare i grandi temi della vita o anche solo a defuturizzare il futuro?

Tomas Saraceno: In generale cerco di lavorare lasciando agli altri il compito di categorizzare il mio lavoro. Innanzitutto bisognerebbe definire il lavoro dell’artista e dell’architetto nella storia. Per me è più interessante cercare di trovare casi interdisciplinari tra queste due aree di ricerca. Fino ad ora, mi sono trovato sicuramente più a mio agio con l’arte piuttosto che con l’architettura: nell’arte la possibilità di dilatare il processo di percezione attiva un’attitudine critica che porta a riconsiderare, re-interpretare, decifrare la tua posizione verso la realtà, verso il mondo. Se decido di guardare questa tastiera per quattro ore senza toccarla, la mia relazione non sarà più la stessa. In ogni caso possiamo applicare il termine “architettura” a un’infitnità di contesti e capire che l’architettura può essere una cosa molto più ampia… architettura del computer, architettura di una poesia….l’architettura è da tutte le parti…e non deve essere essenzialmente concepita come scienza del costruire case, città, ecc…. Mi sembra che le finalità e le interazioni tra discipline debbano essere continuamente re-inventate per ogni specifico contesto. Dopo aver operato una dissoluzione delle “discipline”, dovremmo cercare di attivare un processo di ri-attualizzare in relazione a contesti sempre mutevoli, e così riuscire a trovare un feedback per un processo di comunicazione più veloce, capace di concepire regole più elastiche e dinamiche. Forse possiamo imparare dal principio di ecologia come sistema di coabitazione tra differenti aree culturali. Questo ci aiuterebbe a comprendere la necessità del principio di cooperazione. E’ un sistema basato su principi-entità di “networks” (tutti i sistemi viventi comunicano tra di loro e condividono aree di ricerca), “cycles” (tutti gli organismi viventi vanno alimentati da un continuo flusso di materia ed energia dal loro ambiente per poter sopravvivere e tutti questi organismi producono scarti che diventano utilizzabili da altre specie. In questo modo la materia va in circolo continuamente attraverso questa rete di vita), “partnership” (lo scambio di energia e risorse in un ecosistema è sostenuto da una pervasiva cooperazione. La vita sul pianeta è sostenuta dai principi di cooperazione, “partnership” e “networking”), “diversity” (un ecosistema ha raggiunto la stabilità attraverso la ricchezza e la complessità della propria rete ecologica. Più grande è la biodiversità, maggiore la sua resistenza), “dynamic balance” (un ecosistema è flessibile, è un network in continuo flusso. La sua flessibilità è conseguenza di feedback multipli che tengono il sistema in stato di bilanciamento dinamico. Nessuna singola variabile è massimizzata; tutte le variabili fluttuano intorno ai loro valori ottimali). Sarebbe interessante ottenere questo tipo di sistema di relazioni tra arte, architettura, scienza…

P: Utopia in greco significa nessun luogo, è il nome dato da Tommaso Moro all’isola retta da strutture politiche, sociali e religiose ideali. L’utopia è una proiezione in un mondo migliore, che si contrappone alla realtà storica esistente. L’utopia trae forza dalla razionalità opponendosi alle follie dei tempi. Nel tuo lavoro è presente sia il concetto di utopia, rapportata all’uso di materiali fortemente tecnologici, che il senso di meraviglioso. La tua utopia sembra quella di costruire unità abitative, agglomerati urbani, città che siano sospese in cielo grazie al calore del sole e che possano muoversi con il movimento delle nuvole, così da superare i confini nazionali, un po’ come succede negli aeroporti. Queste unità sono contenute in palloni fatti di un materiale che hai brevettato per questo utilizzo (l’aereogel). L’utopia è qualcosa che si può realizzare oppure è un concetto instabile, che scricchiola quando si confronta con la realtà?

T.S: L’utopia esiste fino a che non si realizza. Non era utopico pensare che la gente potesse viaggiare in aereo cento anni fa? Ora cinquecento milioni di persone volano ogni anno. Nel 2010 saranno tre trilioni… L’idea di utopia è mutata continuamente a seconda delle epoche. Penso che l’individualismo che caratterizza questo periodo storico renda questo concetto instabile, fragile. Adesso c’è una coscienza sempre maggiore riguardo al concetto di sostenibilità nella nostra vita sul pianeta terra. In questo senso il mio lavoro cerca di indagare e interpretare la realtà esistente, utilizzando le innovazioni tecnologiche per nuovi obiettivi sociali. Per esempio la mia idea di Air Port City è quella di realizzare piattaforme, cellule abitative o città che galleggiano in aria, che cambiano forma e si aggregano tra loro come le nuvole. Questa flessibilità di movimento, in relazione agli stati-nazione, trova una risposta nelle strutture organizzative degli aeroporti: la prima città internazionale. Gli aeroporti sono in varie città, e sono divisi da “air-side” and “land-side”; nel “air-side” tu sei sotto legislazione internazionali. Ogni azione che commetti sarà giudicata secondo norme internazionali. “Total control under freedom”. Air Port City è come un aeroporto che vola: potrà viaggiare legalmente attraverso il mondo, usufruendo delle regolazioni degli aeroporti. Lavora su questa struttura cercando di contestare i confini politici, sociali, culturali e militari oggi accettati, per cercare di ristabilire nuovi concetti di sinergia. Un anno fa ho brevettato, con l’aiuto di ingegneri e di avvocati, una applicazione di un nuovo materiale chiamato Aerogel, da essere utilizzato in veicoli più leggeri dell’aria. Questi veicoli usano un gas più leggero dell’aria per elevarsi: elio, idrogeno, aria calda, una mescolanza di essi, o altri. L’applicazione dell’Aereogel da a questi veicoli la possibilità di volare con la sola energia solare. Questi veicoli sono l’alternativa più efficace per il futuro della nostra mobilità e la possibile “colonizzazione” del cielo. Non ci sarà più bisogno di aeroporti, cesserà l’inquinamento ambientale, saranno alternative efficienti per nuovi satelliti e attiveranno nuove possibilità di comunicazione. Questa situazione renderebbe possibile movimenti più veloci ed energicamente sostenibili, un’incredibile mobilità di persone, informazioni, dati, creando una continua ridefinizione dei confini, delle identità nazionali, culturali, razziali. Tutto si muoverebbe con maggiore facilità, creando relazioni e interazioni continue e più veloci, e la possibilità di scegliere condizioni di vita e clima preferite. Sarebbero come entità in uno stato di permanente trasformazione, simili a città nomadi. Gli zingari non ritornano mai nello stesso luogo, semplicemente perché il luogo cambia in continuazione… Air Port City è come una immensa struttura cinetica che opera in direzione di una vera trasformazione dell’economia. Ovviamente le Air Port Cities consentirebbero sviluppo senza danneggiare la biosfera, anzi migliorando le condizioni di vita sulla terra e evitando alcuni pericoli e minacce esistenti, come una possibile collisione di un meteorite, la sovrappopolazione urbana, ecc… Muovere da un “credo” personale ad uno collettivo è il primo passo per la realizzazione di questa idea. Dopo l’unione dell’Europa, si costituirà una “europeanafroamericanasianoceaniadfvdsdf”: come le derive dei continenti all’inizio del mondo, le nuove città cercheranno la loro posizione nell’aria, per poi trovarla nell’universo. Da Cirrocumulus a Cirrocumuluscity!
Immagina: intorno al mondo senza passaporto! Sarebbe importante raggiungere un nuovo accordo internazionale che permetta ai cittadini di avere più di un passaporto, e ai cittadini senza stato di avere un passaporto delle “Unite Nazioni”, che gli dia diritti umani di base nei paesi in cui sono ospiti permanenti o temporali, come sostiene Majid Tehranian in Worlds on the move. Purtroppo, come nota Yonathan Friedman, al momento solo il 2% della popolazione mondiale migra. La mia idea di città e civiltà incoraggia una mobilità continua. Se, come sostiene Lewis Mumford, le città hanno avuto origine dalle necropoli e quindi dal culto dei morti, oggi abbiamo siti internet che mettono in orbita le ceneri dei morti, al motto di “Ashes to Ashes…Dust to Stardust”! La storia sembra che si stia ripetendo: siamo pronti per le città volanti!

P: Buckminster Fuller una volta ha detto: “La nave spaziale Terra è stata così straordinariamente ben inventata e progettata rispetto alla nostra conoscenza che gli umani sono stati a bordo di essa per due milioni di anni senza nemmeno sospettare di trovarsi a bordo di una nave”. Newton sosteneva che la gravità è la forza dalle oscure cause che regge il cosmo. La ricerca di trasparenza e leggerezza nel tuo lavoro sembrano opporsi alla legge che incatena la corporeità: il volo è antica metafora di libertà? Il cielo è una realtà al di fuori del luogo che imprigiona?

T.S: Rivoluzione! Pensa al fatto che l’invenzione del pallone ad aria calda e idrogeno è avvenuto come mezzo di fuga e protezione, verso il 1780, nell’epoca della rivoluzione francese. E’ significativo che durante quel tempo di incertezze, la gente guardasse il cielo per poter fuggire alla realtà in terra. Il pallone costituì un grande mezzo per livellare le disuguaglianze nella società francese. L’aristocrazia poteva avere grandi quantità di terreno, ma il cielo era libero e apparteneva a tutti… E così, più avanti nella storia, quando una società attraversa una fase traumatica, la gente cerca rifugio nel cielo per sfuggire al caos e all’incertezza. Brian Charlesworth ha scritto: “As we emphasized several times already, natural selection cannot foresee the future, and merely accumulates variants that are favourable under prevailing conditions. Increased complexity may often provide better functioning, as in the case of eyes, and we then will be selected for. If the function is no longer relevant to fitness, it is not surprising that the structure concerned will degenerate.”

P: Cosa presenterai da pinksummer?

*T.S : In-formare l’aria: Air under different pressure… Due entrate dell’edificio ti portano sotto differenti “pressioni” dell’aria. Se sali per le scale finisci all’interno della galleria: qui la “pressione” è più alta ma non abbastanza da farti saltare i timpani (air-pop). Prendendo invece l’ascensore, un’altra scala ti porta sul tetto di una nuova stanza dentro al medesimo ambiente della galleria, con una minore pressione. Una membrana di pvc trasparente spessa sei millimetri e alta sei metri farà respirare la galleria, lasciandoti sospeso in aria… la tua ombra come un affresco proiettata sul soffitto. “Pneu”: base di tutta la natura. “Pneuma”: aria. “Pneumatos”: respirare. “Pneo”: vivere-dimorare. Sarà come un organismo vivente, uno spazio che reagisce e “si comporta”. Una sezione di una Air Port City, volendo. 513 m3 di respiro ti sollevano, ti svincolano da terra e ti vincolano agli altri. Una nuova mediazione dello spazio: come tutta l’architettura deve mediare in qualche modo tra un contesto esteriore e interiore, la terra media ed è protetta dallo spazio esteriore dall’atmosfera, ma è in uno stato di permanente instabilità. Due pressioni, la stessa aria: Genova e il Mediterraneo. Un segno nel cuscino-Europa… Se condividi uno stesso volume d’aria, uno spazio ermetico, renderai l’aria così solida da soffocarti. L’entrata e l’uscita della gente nello spazio inferiore permetterà, allora, il ricambio dell’aria. La massa della gente sospesa in alto determinerà l’intensità di questo ricambio. Così come succede con i venti, locali o globali, prodotti dalle sacche di aria che si muovono intorno alla terra, nel loro tentativo di equalizzare la temperatura e la differenza di pressione. Marx ha scritto: “all that was solid had melted into air” (tutto ciò che era solido si è trasformato in aria).

Luca Cerizza: Mi viene in mente una frase di una canzone recente dei Blonde Redhead: “Behind these clouds, I am almost home…”

P: Alla prima presentazione stampa di Genova 2004, capitale europea della cultura, a proposito della sua mostra “Arti e Architettura” Germano Celant affermò che l’architettura è in questo momento storico più alla moda della moda. Crediamo che la moda e le mode nascano da una necessità e, di fatto, da qualche anno c’è molta attenzione verso l’architettura, e anche il mondo dell’arte manifesta fortemente questo interesse. L’architettura intesa come proiezione intellettuale che tende a un mondo migliore. Ogni architettura ambisce a essere uno spazio per vivere e agire bene. Credi che questo interesse per l’architettura sia una manifestazione tangibile del fatto che ci siamo lasciati alle spalle i decenni ‘80 e ‘90, connotati dall’individualismo, prima euforico e poi depresso, per entrare in una fase d’impegno, vero o presunto, dal punto di vista politico e sociale?

L.C: Innanzi tutto bisognerebbe chiedersi cosa intendiamo per “architettura”. Oggi mi sembra un termine più che mai elastico e complesso, che non significa certamente solo grandi edifici più o meno istituzionali e “firmati”. Architettura può essere una tendopoli, un campo di prigionia, una base militare, lo spazio della Rete, un vestito. Qualunque cosa si intenda, mi sembra che, sul binomio arte-architettura, convergano esigenze e urgenze diverse. Da una parte assistiamo, da alcuni anni, ad una sempre più capillare ibridazione dell’arte contemporanea con altri linguaggi, in un dialogo costante con tutte le sfere della creatività e della conoscenza. L’architettura e l’urbanistica sono tra queste. Si cerca sempre di più una relazione e un confronto tra artisti, architetti, urbanisti, pensatori; un terreno comune di scambio e di riflessione, senza divisioni di “casta”. Sicuramente c’è un rinnovato impegno di analisi e polemica politico-sociale da parte di artisti, critici, teorici, curatori e il conseguente tentativo di immaginare soluzioni alternative ai problemi del costruire e dell’abitare, nel senso più ampio dei termini. E quindi una rinnovata attenzione per quelle che sono le modalità del vivere quotidiano ad ogni latitudine, con gli squilibri e le trasformazioni, le massicce migrazioni, la straordinaria urbanizzazione, i problemi demografici, le grandi urgenze ambientali, l’impatto delle nuove tecnologie sul fare architettonico e sul nostro modo di vivere, sul portato simbolico e politico dell’architettura. Arte e architettura si incontrano anche nel museo: il cosiddetto “effetto Bilbao”, emerso in seguito alla costruzione del museo di Frank Gehry e alla conseguente “massificazione” della fruizione dell’arte contemporanea, ha rinnovato il dibattito sulla portata simbolica ed ideologica dell’istituzione-museo. Poi, a processo già iniziato, c’è stato l’11 settembre. L’evento con cui si è chiuso il ventesimo secolo, l’immagine che si è appiccicata con più forza nella memoria collettiva globale, è legata alla distruzione drammatica di un edificio, che era poi uno dei simboli dell’Occidente, per le funzioni che conteneva e per quello che rappresentava visivamente e culturalmente. Insomma, mi sembra qualcosa più di un trend passeggero, anche se questo pericolo ovviamente esiste. Ma la mostra si ferma all’anno 2000, e probabilmente aggira il dibattito su questa e altre urgenze legate all’architettura e all’urbanistica. Per quanto mi riguarda è sempre stato un interesse per le poetiche e le problematiche dello spazio, inteso in modo molto ampio, ad avermi spinto a lavorare su queste ibridazioni e relazioni. Anche quello che ho fatto con la musica elettronica va in questa direzione. Ovviamente il fatto di essermi trasferito a Berlino nel 2000 ha avuto una forte influenza, sia per l’identità e la storia della città, che per il suo ambito culturale e artistico.

P: In Italia I “giovani curatori”, ancor più dei “giovani artisti”, tendono a rimanere “giovani” per sempre: non accade quasi mai che vengano chiamati, per mettere a disposizione il sapere fresco della militanza, da un “curatore anziano”, ovviamente più rassicurante rispetto agli investimenti politici, a collaborare a una grande rassegna con un grande budget. Nei giorni in cui pinksummer inaugurerà la mostra di Tomas Saraceno, che tu hai invitato, a Genova ci sarà l’apertura del colossal “Arti e Architettura” di Celant. Siamo felici che la nostra città abbia investito finalmente sul contemporaneo e che l’esposizione sia curata da un professionista in grado di dare garanzie qualitative , ma ci piacerebbe sapere su quali basi avresti lavorato per una sezione non ancora storicizzata della mostra.

L.C: In verità non so molto della mostra ed è difficile parlarne senza averla ancora vista. Dalle informazioni che ho posso immaginare, e forse non potrebbe essere altrimenti, una mostra di carattere “generalista” e di ampio respiro storico e spettacolare, piuttosto che strettamente d’attualità e/o militante. Concentrata semmai sul potere di seduzione, forse un po’ hollywoodiano, dell’immaginario architettonico e sulle sue grandi firme. Da quello che s’intuisce dalla lista degli artisti più giovani invitati, che comunque sono tutti di grande qualità, posso dire che avrei esteso la selezione a personaggi attenti soprattutto alle dinamiche urbanistiche, sociali e politiche di respiro più ampio, piuttosto che al rapporto con la forma simbolica e architettonica dell’edificio. La lista sarebbe infinita, ma direi che avrei avuto uno sguardo più attento alle dinamiche “macro” che a quelle “micro”, all’urbanistica più che alle forme dell’architettura, magari proprio attraverso l’analisi di contesti e situazioni specifiche e locali. Per esempio, sarebbe stato interessante presentare ricerche sulle comunità sociali “alternative”, sugli sviluppi urbani delle megalopoli contemporanee, sulle tensioni odierne legate alla globalizzazione, ai confini, alle identità culturali, alle problematiche ambientali, alla sostenibilità ecologica, e sicuramente attraverso uno sguardo meno precisamente occidentale. Un’attenzione verso architetture marginali, non-ufficiali, ibride, precarie, improvvisate, nomadi, per esempio. Se poi ci fermassimo al rapporto con l’edificio, mi sembrerebbe interessante riflettere sull’impatto delle nuove tecnologie sull’architettura, verso la creazione di un ambiente sempre più flessibile, dinamico, continuamente ri-definito, dove le categorie spazio-temporali tradizionali sono messe in crisi. O, sulle sempre più urgenti questioni legate al rapporto tra spazi pubblici e privati, in relazione alle problematiche sociali, al consumo e all’intrattenimento, per esempio. Insomma, da una parte un’analisi più decisamente “sul campo”, dall’altra una visione sul futuro, magari collegandosi proprio a quella stagione importante e stimolante della ricerca architettonica che lo stesso Germano Celant definì tanto tempo fa “radicale”. In questo senso, ci sono moltissimi esempi di ricerche condotte da artisti internazionali (Tomas Saraceno è tra questi) e da alcuni bravi artisti italiani che riprendono e attualizzano le premesse di quegli anni, a confronto con nuove esigenze. Ma è una storia di cui si è appropriata più l’arte e l’architettura straniera (penso all’Olanda e alla Francia per esempio) che quella italiana. Sarebbe interessante “bringing it all back home”, per dirla con Dylan… Inoltre mi sembra veramente difficile dimenticare che a Genova, in un passato molto recente, mentre la cittadinanza era invitata a sistemare con cura le fioriere, si è verificato uno degli episodi più inquietanti e violenti di “militarizzazione” del tessuto urbano, durante i giorni del G8. Un momento di grande forza simbolica delle tensioni tra diverse visioni sociali e politiche odierne, sul terreno reale della città, e di una città morfologicamente così particolare come Genova. Direi che proprio da Genova potrebbe iniziare un’analisi su queste problematiche che sono state, ancora una volta, tema di dibattito, più all’estero che in Italia. Ma è scontato dire che questo creerebbe più di un imbarazzo a chi ha sponsorizzato questa manifestazione…

P: Raccontaci come hai conosciuto Tomas Saraceno, qual’è il primo lavoro che hai visto e cosa ti ha intrigato.

L.C: Penso di aver sentito parlare di lui e del suo lavoro da amici comuni alla Städelshule di Francoforte, dove Tomas ha studiato nella classe di Peter Cook, uno dei fondatori di Archigram e ancora adesso attivissimo pubblicista e architetto. Forse l’ho incontrato per la prima volta alla Tate di Londra, alla mostra di Olafur Eliasson, per cui ha lavorato per qualche mese e con cui ha collaborato in alcuni progetti. Poi ha partecipato ad una collettiva a Berlino e ho cercato di contattarlo. Abbiamo iniziato a comunicare per email e poi, quando era di passaggio a Berlino qualche mese fa, l’ho incontrato e abbiamo parlato a lungo. Direi che sia stato soprattutto il pensiero e la ricerca di Tomas ad interessarmi, piuttosto che un singolo lavoro. La sua mi sembra, per dirla con Yona Friedman, una “utopia realizzabile”. Mi affascina la forza, il coraggio e l’onesta della sua visione, che tocca alcuni temi e interessi su cui ho lavorato in questi ultimi anni con una certa continuità: poetiche dello spazio, dinamiche sociali, sensibilità ecologica, immaginari di un futuro possibile, tra architettura, scienza e politica. Mi interessa il suo legame con alcune ricerche della stagione dell’architettura cosiddetta “radicale” in direzione di forme di socialità e di aggregazione future. Penso che Tomas sia un artista generoso e ottimista, ma allo stesso tempo non ingenuo, con un atteggiamento critico ma fortemente costruttivo. E questo mi piace. Sono convinto che questo tipo di tensione sia quanto ormai urgente in questa fase storica, quando sembra che l’irrazionalità e la violenza rendano impossibile pensare a nuove e migliori forme di comunità e di società civile.

L’installazione sarà visibile fino al 10 Gennaio 2005