Luca Trevisani – 38° 11′ 13.32” N 13° 21′ 4.44” E 44° 24′ 27.4” N 8° 55′ 60.0” E

Comunicato stampa in forma di intervista

Pinksummer: “Pur non entrando nel dettaglio, prendiamo in considerazione solamente quell’architettura vivente e mobile che è la danza. Gli elementi non sono più le pietre ma gli uomini: facendo parte della danza, per suo tramite sono sottratti alla vita animale e trasportati nella vita sociale, vale a dire nella vita propriamente umana. Appare infatti chiaramente come la danza derivi dalla cerimonia e quest’ultima non è altro che la manifestazione della società. Gli uomini che danzano, dunque realizzano danzando la loro vocazione di uomini. Tutte le arti, e in particolare l’architettura, sono simboli della danza, o piuttosto della cerimonia. Affermando che le pietre del tempio vogliono essere là dove sono – cosa alquanto incomprensibile – volevamo dire che l’architettura consiste nel trasportare nelle pietre le relazioni umane”.
Queste parole di Simone Weil contenute nel piccolo saggio Il Bello e il Bene1, ci hanno fatto pensare a quella che immaginiamo sarà la tua terza personale da pinksummer, una danza o forse anche una cerimonia basata sulla ripetizione, intesa come attualizzazione di qualcosa che precede la Storia e che è sempre esemplare, accordandosi in qualche modo alla lunga e costante nota del tempo mitico del panta chorei, quando il mutamento incessante della natura, il panta rei, viene delimitato dal logos, trasformandosi in danza, in poiesis.
Per rendere lo spazio sacro, negli stadi più antichi della nostra civiltà, lo si agganciava al cosmo con un asse e i punti cardinali, appartiene alle culture agricole invece la ripetizione rituale di un’azione esemplare, dove il mondo si genera da una contrapposizione, da una frattura, tra il territorio abitato, considerato sacro e l’indeterminazione caotica del mondo.
Se la mimesi del divenire ha sempre costituito la nota di testa del tuo lavoro, nel caso dell’opera focalizzata sulle misteriose incisioni rupestri delle grotte dell’Addaura, sul monte Pellegrino, che sovrasta Palermo, tale nota sembra allungarsi in profondità, per far affiorare, ritualizzandola, la lacerazione che ha generato la società e la Storia.
“L’idolatria è dunque una necessità vitale nella caverna. Seppure anche tra i migliori, è inevitabile che limiti strettamente l’intelligenza e la bontà”, scriveva Simone Weil in L’ombra e la Grazia.
L’idolatria è da intendersi come medicamento atto a suturare la frattura fondante della società umana che implica l’esclusione. Anche l’Illuminismo alla base della società moderna in questo senso potrebbe essere intenso come forma di idolatria.
La tua mostra che pare stabilire una sorta di continuità in potenza con quegli uomini della caverna, che nel tardo epigravettiano o all’inizio del mesolitico hanno rappresentato con la pietra e sulla pietra una scena di esclusione, in cui gli animali appaiono discostati e accessori, nasce dall’incanto o dal disincanto?
Luca Trevisani: Le grotte dell’Addaura sono chiuse al pubblico per motivi di sicurezza, sarà forse quindi stato per il fascino del proibito, sommato alla giornata di pioggia monsonica da cui ci riparammo nelle insenature, o per quello che vedemmo sulle rocce: di certo non fu un viaggio che ci lasciò indifferenti. È la visita a un mistero, che come tale è sacro, ma anche buffo, perché ci mostra quanto siamo semplici.
Il complesso delle grotte dell’Addaura è diventato per me un luogo di riferimento, immaginatevi una palestra di roccia abusiva, ma frequentatissima, mescolata a un’oasi di pace per adolescenti in cerca di un’alcova da cui vedere il mare, una scuola di disegno per graffitisti contemporanei, una spiaggia archeologica dove molluschi e dolomite si sono incontrati e incastrati, e – finalmente- un luogo che custodisce incisioni rupestri così antiche da non potersi datare e così fresche da farmi pensare che siano un falso storico succosissimo e verissimo. Si dice che le immagini conservate in queste grotte siano tra le più antiche mai realizzate, in cui è raffigurata una comunità di uomini, forse tra i primi coltivatori, di certo presi e persi in un rito collettivo. Questo luogo è come un giardino sociale, un po’ spontaneo e un po’ tenuto a bada; vivo, scapigliato, inafferrabile, dolcemente fuori norma come un poco tutto il paesaggio che lo circonda.
Avete presente Hotel Palenque ? Quella lecture e proiezione di immagini in cui Robert Smithson si mise a leggere un hotel abbandonato, con delle foto e un testo di purissimo misticismo architettonico? Ecco, quella è stata una sottile guida psichica per le ore che ho passato tra quelle rocce palermitane. Addaura, mese dopo mese, è diventata il mio Hotel Palenque, una piattaforma performativa per meditare sui processi entropici, e su come noi li danziamo.
Per me Addaura è una situazione così florida e bizzarra da non poter accettare che rimanesse sconosciuta ai più, e ho deciso di lavorare come per farne delle cartoline, come per poterla portare in giro, come per metterle le gambe e le ali, stamparla su grandi lenzuoli di carta per trasportarla in viaggio, farla diventare scultura impropria e file digitale, per scioglierla nel mondo.
Era necessario trasformare questo luogo per distillarne il succo, trasfigurarlo per farlo vivere, mi sono fatto ventriloquo per farla parlare.
Ps: “…And my feeling is that the hotel is built with the same spirit that the Mayans built their temples”, scriveva Robert Smithson a proposito di Hotel Palenque. Per certo non hai maneggiato i graffiti dell’Addaura in senso romantico. Di fatto anche l’idea di “rovina al contrario” rispetto al tuo approccio con quel luogo c’entra molto: non è il tempo a fare cadere una costruzione in rovina, bensì la deriva entropica è il fondamento della costruzione stessa, si potrebbe dire endemica rispetto a tutte le costruzioni umane possibili, anche quelle future, fossero anche teoriche. Si possono costruire solo rovine perché la nostra percezione del tempo è evenemenziale e impostata sull’irreversibilità dell’eternità.
Ci eravamo disabituate al tuo discorrere poetico ed elusivo, siamo testarde e ritorniamo alla prima domanda, credi che l’entropia possa essere una variabile provocata da quel rito consumato da quei primi coltivatori maledettamente antropocentrici?
LT: Certo. Si. Senza ombra di dubbio. L’entropia è il disordine immesso in un sistema, e l’uomo, il solo animale che abita e sfonda e ridisegna i confini della natura, non fa che immettere entropia nel mondo. Queste incisioni nella roccia sono l’unico reperto rupestre di nostra conoscenza in cui, circa 10-14.000 anni fa, l’uomo disegna per la prima volta un rito, rappresenta lo stare assieme, la società, il convivio. Questi uomini che danzano ci mostrano la convenzionalità del nostro concetto di habitat e di società; chiamano in causa la definizione di natura, sono un’analisi vivente della nostra idea di progresso e di futuro. Che si tratti dell’incisione di un rito apotropaico o di sciamanismo erotico o di una burla recentissima, questo non ci è chiaro, ma di certo la grotta dell’Addaura ci mette davanti a qualcosa che non possiamo comprendere, a immagini così antiche da essere fuori dalla Storia, senza una tradizione visiva che ci guidi alla loro comprensione. Ogni buona opera d’arte è impastata di ambiguità; non so se questa si possa chiamare anche entropia, ma pensare l’arte come a un campo in cui si coltiva entropia, è un’idea suggestiva.
Ps: “I disegnini di animali e di pupazzi” dell’Addaura, per citare, l’allora sovrintendente Giovanni Mannino, che in La grotta dell’Addaura, delle incisioni e l’Antro Nero”, narra del rinvenimento tra il 1951 e il 1952 dei graffiti paleolitici grazie a un tale Giovanni Cusimano che si definì “ cercatore di tesori e conoscitore di ogni pietra di Monte Pellegrino”, rappresentano, per il loro squisito realismo, un unicum nel panorama mondiale dell’arte rupestre.
Tornando a “L’ombra e la grazia”, Simone Weil scrive: “Quando il vero sembra almeno altrettanto vero che il falso, è il trionfo della santità o del genio” e ancora “Bisognerebbe che l’avvenire rimanesse là senza cessare di essere avvenire. Assurdità che solo l’eternità può guarire”.
Certo forse le categorie per comprendere quella rappresentazione fuori dalla storia non le abbiamo, ma l’interpretazione, vero o falsa che sia, ammesso che questi pregiudizi possano essere applicati qui, è in grado di attualizzare anche la preistoria dentro a un qualsiasi rocambolesco Jurassic Park. D’altra parte hai detto che in potenza, il cianotipo ermeneutico, squisitamente pittorico, cha hai realizzato per replicare le incisioni rupestri della caverna come fossero cartoline, avrebbe potuto essere prodotto da quegli stessi uomini del tardo paleolitico. Se noi umani riuscissimo a liberarci dalle catene che ci imprigionano da almeno 14000 anni nella caverna dell’Addaura, diventeremmo come gli dei che non hanno bisogno né di interpretare né di rappresentare?
LT: Essendo umani non ci libereremo da nessuna catena che appartiene agli umani e alla loro natura, e va bene così. Ho scelto di interrogare e intervistare questi fantasmi replicandoli con stampe cianografiche, sviluppate con reazioni chimiche semplici e elementari. Ho usato una tecnica ottocentesca ibridandola con un negativo digitale, e ottenendo stampe a colori con l’aiuto di vino, caffè, thè, ammoniaca, urina animale e mille altri intrugli. L’ho fatto pensando che la chimica è forse l’unica cosa che ci unisce a questi nostri antenati, la vita molecolare della materia è la stessa che si svolgeva a quei tempi, le energie del sole e dell’acqua del mare sono sempre quelle, e ancora incorniciano le grotte. Il cianotipo e i suoi errori e le sue casuali scoperte, mi sembravano l’unico modo saggio per scardinare e scacciare lontana ogni sciocca idea di progresso, che potrebbe malauguratamente accompagnarci mentre guardiamo queste iscrizioni.
Ps: Quale sarà il titolo della mostra?
LT: L’arte è per me un luogo di ricerca e di scavo. È sperimentazione, e non tutti gli esperimenti vengono bene, a volte si fallisce. Ho capito esserci una tensione costante che attraversa tutto il mio lavoro, è l’azione sui materiali, sulle storie, e sui luoghi. Il mio lavoro è come un’agenzia di viaggi che conduce verso situazioni altre, che tenta di sottrarre all’oblio, o alla non conoscenza.
Il mio lavoro è puntare l’indice verso qualcosa che desidero vediate, e costruire di volta in volta un ponte perché ci arriviate, scegliere il linguaggio giusto per far parlare un luogo, coniare una lingua adatta. Il titolo della mostra si spiega in questo modo, sono le coordinate geografiche delle grotte dell’Addaura, seguite dalle coordinate geografiche di Pinksummer, a Genova. 38° 11′ 13.32″ N 13° 21′ 4.44″ E / 44°24’27.4″N 8°55’60.0″E
Ps: La mostra avrà un suono, cosa sarà?
LT: Ho realizzato un lavoro sonoro, una specie di omaggio a Alvin Lucier e alla sua “I’m sitting in a room”. Ho preso le coordinate geografiche della grotta e le ho fatte tradurre in morse da un sito web, per poi far diventare questo codice un suono, in maniera automatica, grazie a un altro sito gratuito. Ho fatto suonare la localizzazione della grotta dentro la grotta stessa, registrando il suono che ne veniva fuori, per poi farlo ri-suonare ancora nella grotta, e registrarlo di nuovo, e via discorrendo. Ho intervistato la grotta cercando di udire la sua posizione: ne è uscito un suono astrale, un mantra fuori dal tempo, che mi fa pensare al jingle alieno di Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Ps: Per favore potresti utilizzare come immagine per l’invito, quella foto che ci hai inviato con whatsapp, per mostrarci le sculture che presenterai da pinksummer appena realizzate, en plein air, a Palermo, in cui assomigli a un invincibile pescatore da lago americano, con la sua carpa in mano, come un trofeo?
LT: Sì.
1 Simone Adolphine Weil, Il Bello e il Bene, a cura di R. Revello, Mimesis Edizioni, 2018