Invernomuto – MED T-1000

COMUNICATO STAMPA

 

PINKSUMMER: Non abbiamo mai pensato al vostro lavoro in termini squisitamente geografici prima di Black Med, il progetto che avete presentato alla Manifesta 12 di Palermo nel 2018. Ascoltare Alessandra Di Maio e Iain Chambers, da voi invitati a tenere una lecture a Palermo, la prima all’interno del vostro progetto, ci ha fatto pensare che le idee di luogo possono definirsi in tanti modi diversi, e che i vostri soundscapes tendono a definire il luogo attraverso la dislocazione e la de-territorializzazione. I paesaggi di Invernomuto sono mobili, fluidi, cangianti. Sono i paesaggi immateriali delle diaspore: luoghi acustici, fuori da ogni confine, per “anti-essenza” sono transnazionali, transculturali. Paesaggi opachi che paiono originarsi dai memi spaziali che fluttuano nel tempo pronti a mettere le radici nell’udito di chi presta attenzione al rumore di fondo. Sono paesaggi da ascoltare. Raccontano di esili e di resistenza, di incroci e ibridazioni, di assonanze e di dissonanze. A loro modo possono definirsi corali o comunque non si lasciano appiattire dalla visione univoca euro-americana del luogo, inteso innanzitutto come nazione. Il legame tra la musica e la geografia, anche a ritroso, ci appare adesso centrale nel vostro lavoro. Le vostre geografie evocano epistemologie altre? Altre storie, altre culture, altri corpi, per citare Iain Chambers, che tendono a essere negati rifiutati dalle mappe visive e linguistiche che siamo abituati a maneggiare? Esiste un luogo della musica?

 

INVERNOMUTO: Black Med per noi è un progetto che completa ed esprime il nostro interesse per gli immaginari che il suono è in grado di generare. È un sotto testo che accomuna il nostro lavoro da sempre, ma che con Black Med forse affiora in maniera più chiara, per quanto l’operazione sia tutt’ora in fieri e in via di definizione, liquida, appunto – e dunque per molti aspetti ancora imprendibile. Con questo ciclo le geografie di cui parli non mirano ad assecondare una concezione cartografica o geopolitica tradizionale, al contrario l’obiettivo – per citare sempre Chambers – è quello di creare “buchi nello spazio e nel tempo”, di perforare le mappe, evitando di osservare il Mediterraneo come una superficie piatta e bidimensionale. Black Med si mette in ascolto, forza il perimetro del Mare Nostrum per sondare geografie espanse, fatte di movimenti di persone, oggetti, dati e capitali. La musica e il suono sono i formati di diffusione di questa ricerca. Non esiste un luogo della musica, perché essa viaggia molto più velocemente del previsto, e soprattutto lo fa senza chiedere un permesso di transito.

 

 

PS: Abbiamo letto che nel 2006 alcuni residenti illegali dell’America Latina cantarono l’inno nazionale statunitense in spagnolo nelle strade della California. Lo chiamarono il nuestro hymno. Intervenne l’allora presidente George W. Bush affermando che l’inno nazionale degli USA poteva essere cantato solo in inglese. Detto così sembra ridicolo, di fatto la più alta carica dello stato intervenne per porre la questione della lingua come centrale rispetto all’idea di nazione. Come se la lingua coincidesse con l’idea stessa di nazione. I rasta rifiutano la prima persona singolare della lingua creola giamaicana “me”, che intendono come espressione di servilismo, e usano “I”, il noi è espresso con “I and I”. La lingua rasta contiene tutta una serie di I-words come I-vine al posto di divine. Quando nacque il rastafarianismo negli anni Trenta del secolo scorso, il 90% della popolazione della Giamaica era costituita dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa per garantire la reddittività dell’isola caraibica destinata dall’Impero britannico e alla produzione di zucchero. Il linguaggio verbale è un border marker divisivo? Pensare con il suono, non al suono come oggetto, produce un altro senso di appartenenza? Il suono è linguaggio? La geofonia, la biofonia, l’antropofonia sono anch’essi linguaggi?

 

IM: Il linguaggio delle culture giovanili o degli oppressi non ha mai coinciso con la lingua ufficiale, in ogni parte del mondo. La nascita degli slang svolge questa funzione. Il patois giamaicano – o il verlan delle banlieu parigine – è tradizionalmente il linguaggio gergale delle classi più povere della società, utilizzarlo è una necessità politica, una rilessificazione indispensabile che reinterpreta e fa propria la lingua degli oppressori. Il celebre leader rasta Count Ossie in un’intervista del 1972 per Swing Magazine dichiarò: “We were fighting colonialism and oppression, but not with guns and bayonet, but WORDICALLY”.
L’archivio sonoro di Black Med è attraversato da lingue non ufficiali di continuo: dal dialetto napoletano alle recitazioni del corano e i canti tradizionali della Grecìa Salentina; dall’utilizzo “sbagliato” dell’Auto-tune della musica pop Amazigh ai molti slang delle lingue del rap e trap contemporaneo. I linguaggi oggi sono molteplici e non secondario è il contributo della tecnologia applicata alla voce, spesso dissacrata e scomposta. In parallelo, Google Translate è sempre più sofisticato.

 

PS: Nella prima personale di Invernomuto Africa Addio da Pinksummer a Genova nel 2015, avete incoronato in oro zecchino i “mori” post-moderni e post-coloniali delle sottili veline in cui vengono fasciate le arance siciliane per essere trasportate al nord. Il simbolo del vostro Black Med, che muove dalla teoria “africanista” del Mediterraneo di Alessandra Di Maio, è una testa di moro che avete trovato già incoronata. Con la corona sono presentati i mori in coppia, maschio e femmina, a volte bianchi a volte neri, nei tipici vasi di ceramica di Caltagirone. I mori in questo folclore non sono schiavi, ma i conquistatori arabi che hanno dominato la Sicilia fino al 1071, anno della presa normanna dell’isola. Di quel “vostro” moro rimase solo la testa perché la leggenda racconta che fu decapitato dalla sua amante, splendida giardiniera siciliana, che non volendo lasciarlo andare via, lo tenne con sé in qualche modo, trasformando il suo capo incoronato in un vaso per il basilico. Una storia che racconta del Mediterraneo, mare di mezzo, mare di lotte e di crisi e della Sicilia come ponte sospeso tra l’Europa e l’Africa. Alessandra Di Maio afferma che le migrazioni dei popoli non sono mai accidentali sono sempre modellate e strutturate, quella del Black Atlantic dalle deportazioni degli schiavi dall’Africa, e quelle dell’attuale Black Med?

 

IM: È curioso in effetti pensare oggi alla serie King Moro con le veline delle arance di Sicilia alla luce della recente firma del memorandum tra Roma e Pechino che agevola l’esportazione di agrumi freschi verso la Cina nell’ambito di una ipotizzata nuova Via della Seta. La teoria del Black Atlantic è modellata sulla diaspora africana post-schiavitù, quella del Mediterraneo Nero sulle migrazioni contemporanee. Black Med è nato grazie ai testi di Alessandra Di Maio ed è il motivo per cui era fondamentale lanciare il progetto insieme a lei a Manifesta 12. In generale consideriamo queste teorie strumenti portanti per la nostra ricerca, con Alessandra è nata una collaborazione speciale. Il suo saggio Those Are Lasers that Were Their Eyes – che accompagna questo comunicato e che pubblicheremo online su palmwine.it è da questo punto di vista quasi un’estensione teorica della mostra.

 

PS: Cosa presenterete da Pinksummer?

 

IM: La mostra si presenta come un’unica installazione di macchine in ceramica e raggi laser. MED T-1000 è un reticolo formato da otto teste di moro modificate. Queste teste non sono più “di moro”, e forse non ha nemmeno senso definire se siano buone o cattive: sono patrol della costa mediterranea o esoti contemporanei? Sono i dispersi del Mediterraneo che riemergono e cercano vendetta? Il riferimento al T-1000 (Terminator Serie 1000, apparso per la prima volta nel film Terminator 2, il Terminator in grado di liquefarsi) è formale, ma anche programmatico: il payoff di Terminator recita infatti “They would reshape the Future by changing the Past” – che, oltre a spaccare la concezione cartesiana del tempo, funziona per noi come una sorta di manifesto.
MED T-1000 è un unico ambiente scultoreo, luminoso e sonoro. Il suono è un nostro adattamento di “L’Egitto Prima Delle Sabbie”, brano e album di Franco Battiato del 1978, ispirato ad un racconto del maestro armeno Georges Ivanovič Gurdjieff. Gurdjieff sosteneva di aver trovato una mappa che era la prova dell’esistenza di una civiltà precedente all’Egitto dinastico. A quei tempi, la sabbia non aveva ancora trasformato l’Africa settentrionale in quello che oggi chiamiamo deserto del Sahara, e il continente era il luogo più fiorente e civilizzato sulla Terra.
Nella seconda sala presentiamo invece due opere bidimensionali, prodotte in parallelo alle ricerche di Black Med: una foto scattata nel porto di Marsiglia, Corsica Linea (2019), con un intervento in PVC specchiante – e MED T-800, un grande collage composto da 42 postcard di varie epoche, che mostrano diverse vedute del Mediterraneo e dei luoghi che vi si affacciano, prese d’assalto da un T-800, il cyborg protagonista del primo Terminator.

 

 

Sono laser, quelli che erano i suoi occhi

 

“Dell’acque sta sepolto

tuo padre, e non è morto,

ché la magia del mare

lo seppe trasformare

in cosa ricca e strana:

son l’ossa sue coralli

e perle i suoi occhi”

(W. Shakespeare, La Tempesta)

 

Alessandra Di Maio

 

Nel settembre 2012, quando il celebre duo di designer italiani Dolce & Gabbana ha presentato la collezione Primavera/Estate 2013 a Milano, il loro utilizzo di ciò che era percepito da un audience internazionale come Blackamoor, rappresentate su alcuni capi e accessori femminili, ha causato un enorme scandalo. Particolarmente controversi gli orecchini che rappresentavano teste di moro molto stilizzate, che pendevano dalle orecchie di dozzine di modelle, nessuna delle quali nera. Giornalisti, artisti, blogger, e appassionati di moda erano sul piede di guerra, specialmente in Inghilterra e negli Stati Uniti, nazioni storicamente sensibili ai dibattiti razziali e alla rappresentazione del corpo nero. Il Guardian ha paragonato i gioielli con le teste di moro alle bambole Aunt Jemima, notando come fosse impossibile “non essere inorriditi dal trasparente esotismo nel vedere le uniche facce di colore sulla passerella in forma di orecchini.”[1] Il blog femminista Jezebel ha definito gli oggetti “Mammy earrings.” L’Huffington Post ha parlato di “immaginari razziali insensibili” dal momento che le figure rappresentavano la schiavitù, concludendo che “il duo di designer avrebbe dovuto evitare qualsiasi cosa potesse trarre profitto dalla cultura degli schiavi.”[2] Azealia Banks, musicista hip hop americana, ha commentato duramente definendola una collezione razzista, twittando al mondo che avrebbe boicottato Dolce & Gabbana. La rivista Refinery29.com ha affermato che la collezione riposa pesantemente “sugli allori di un’epoca coloniale a lungo perduta, completa del suo immaginario fumettistico, degradante e subalterno e che pure il nonno più politicamente scorretto ci avrebbe pensato due volte.”[3]

Nonostante la controversia sia facilmente comprensibile – c’erano effettivamente teste di colore che penzolavano dai lobi delle modelle nella passerella di Milano – va considerata una discreta quantità di inesattezze storiche attorno a queste figure. Come hanno spiegato Dolce & Gabbana nel loro comunicato e nella loro autodefinita “rivista di lusso online” Swide, i loro orecchini fanno riferimento alla tradizione dei vasi siciliani delle teste di moro, così come il resto della collezione è ispirata dal folklore siciliano: le ruote decorate dei carri tradizionali e le marionette dell’Opera dei Pupi.[4] Dietro tutto ciò, Elisa Della Barba ha spiegato su Swide, c’è una storia antica e una leggenda particolare. I famosi orecchini riproducono i vasi in ceramica a forma di testa di moro che hanno decorato a lungo molte case siciliane e si possono facilmente trovare nei negozi di souvenir di tutta l’isola – che è tra l’altro il luogo di nascita di Domenico Dolce, una delle metà del brand. I mori rappresentati sui vasi coprono una vasta gamma di colori: alcuni sono neri come la pece, altri bianchi, altri ancora biancastri oppure mulatti; e tutti hanno le sembianze facciali dei mori. Persino la varietà di colori facciali è stata imitata negli orecchini di Dolce & Gabbana. Ma le fotografie che sono comparse su internet e sui principali canali di comunicazione e stampa riguardanti la passerella, mostravano solo gli orecchini con le teste di pelle scura – alle quali in inglese ci si riferisce con il termine “Blackmoors”, enfatizzando il colore scuro, in contrasto con la più comune definizione italiana “mori”.

Indipendentemente dal colore, sia i vasi originali, sia, per analogia, le teste dei mori negli orecchini Dolce & Gabbana, rappresentano l’esotismo che perpetua un “immaginario razziale insensibile”, un argomento intrigante e ancora largamente trascurato in termini di indagine estetica. In effetti, alcune sembrano realistiche, mentre altre presentano caratteristiche moresche goffamente stereotipate. Ciò che è certo, tuttavia, è che la storia iscritta sui tradizionali vasi che hanno ispirato Dolce & Gabbana non fa riferimento alla concezione moderna di schiavitù, né al colonialismo occidentale. In contrasto con la loro controparte nordica – le statuette dei mori delle tradizioni veneziana o fiorentina che rappresentano discendenti di servi africani – le teste di ceramica dei mori siciliani si riferiscono ad un momento della storia precedente, pre-moderno: la dominazione araba della Sicilia, ampiamente riconosciuta come lo zenit dello splendore dell’isola. In particolare, si riferiscono alla storia popolare, che secondo la leggenda risale all’anno 1000 d.C. Per contestualizzare la storia è necessario tornare a quel momento storico, attraverso un breve flashback nella storia italiana.

L’Italia è considerata un paese occidentale. Fa parte dell’Unione Europea, dei primi G7 – ora G20 – e stato membro della NATO. Nel discorso contemporaneo, appartiene al Nord e all’Occidente del mondo, al contrario del Sud Globale e dell’Oriente. È un paese dove, negli ultimi anni, un grande numero di migranti è approdato dai quattro angoli del mondo, specialmente dall’Africa, in cerca di migliori condizioni di vita. In ogni caso, fino a che il paese fu definito un’unica nazione, nel 1861, il territorio che comprende la penisola e le due maggiori isole della Sardegna e della Sicilia che oggi chiamiamo Italia era un insieme di piccoli stati indipendenti, compreso lo Stato Pontificio, più spesso che mai in guerra tra loro. La Sicilia, geograficamente e culturalmente strategica, era uno di questi piccoli stati. Posizionata al centro del Mediterraneo, l’isola è stata un magnete per i conquistatori attraverso i secoli.

Arrivati dalla moderna Tunisia, gli arabi conquistarono la Sicilia nell’827 e rimasero al potere per più o meno 250 anni. Infatti, I nuovi conquistatori non furono comunemente conosciuti come arabi, ma come mori. Il “notoriamente incerto” termine “moro” fu adottato più generalmente dagli europei per riferirsi sia alle popolazioni nomadi che agli arabi del nord Africa, spesso estendendolo a popoli di altri paesi africani e a ciò che oggi chiamiamo Medio Oriente, addirittura includendo anche paesi lontani come l’India.[5] Il termine non implicava quindi una singola e delimitata identità culturale, etnica o razziale. Faceva riferimento a persone di colore scuro come a persone di colore più chiaro. Spesso anche usato come sinonimo di “musulmano”, “moro” in realtà trascende i limiti della religione, comprende numerose storie, geografie e ideologie, ognuna con i propri indicatori culturali. L’espressione è stata coniata dagli europei per riferirsi all’“altro”, che arrivava attraverso il Mediterraneo; significava l’intersezione tra culture europee e non-europee.[6]

I mori portarono in Sicilia la coltivazione degli agrumi, i sistemi di irrigazione, l’architettura sontuosa, l’algebra, il Corano, le maioliche e una ricca tradizione culinaria. La pasticceria siciliana conosciuta in tutto il mondo – cannoli, cassata, marzapane – risale alla dominazione araba, che durò senza opposizione fino alla conquista normanna del 1071. Fino a quel momento, la Sicilia era un emirato arabo, e Palermo era la sua capitale. I mori non erano schiavi, ma conquistatori. Per usare una terminologia moderna, non erano i subalterni, ma la classe dirigente; non i soggetti coloniali, ma i colonizzatori. Erano i sovrani, come la corona sulle teste decorative rende chiaro.

Le leggende iscritte sui vasi risalgono ai tempi della dominazione araba della Sicilia. Arte e leggenda sono combinati al punto che sembra impossibile distinguere se sia la tradizione che ispira l’arte o, viceversa, l’artefatto che ha fatto nascere la leggenda. Tuttavia, la storia narra che nell’anno 1000, nel cuore della Kalsa, uno dei quartieri arabi di Palermo, visse una bellissima giovane donna siciliana che passava le sue giornate a coltivare piante e fiori sulla sua terrazza. Alle giovani donne benestanti non era permesso uscire per conto proprio in quei momenti, e l’occasione degli incontri sociali era mediata dai genitori. Ma dal momento che la donna faceva giardinaggio sul suo balcone, la sua bellezza era nota ai suoi vicini, i quali dicevano che i suoi capelli erano scuri come la notte e gli occhi blu come il mare nella baia di Palermo. Un giorno passò un giovane moro che viveva nelle vicinanze e, ipnotizzato dalla rigogliosa vegetazione sulla terrazza, scorse e vide, tra i fiori, la bella signorina. Fu amore a prima vista. Si avvicinò, chiese di essere ricevuto e le dichiarò il suo amore eterno. Mossa dalle sue dolci parole e dalla purezza dei suoi sentimenti, lei ricambiò. La storia d’amore continuò appassionatamente, fino a che un giorno, qualche tempo dopo, il moro disse alla donna che doveva lasciare Palermo per tornare nel suo paese, dove sua moglie e i suoi figli lo stavano attendendo. Alla giovane donna, ignara del fatto che il suo amato avesse una famiglia nella sua terra natia, si spezzò il cuore. Infuriata a causa del tradimento e del disonore, progettò una vendetta in perfetto stile medievale siciliano. Invitò il suo amante a trascorrere l’ultima notte insieme nella sua dimora, e quando finalmente si fu addormentato, gli mozzò la testa. In questo modo il suo amante sarebbe rimasto con lei per sempre, come aveva promesso. E quale modo migliore di preservare la sua testa che trasformarla in un vaso dove piantare il basilico, l’erba reale, dove il conquistatore decapitato sarebbe stato perfettamente? La pianta nella testa dell’uomo si unì alle altre sulla terrazza, crescendo in fretta e così lussureggiante e fragrante che i gelosi vicini, che avevano fedeli ceramisti in città, si fecero realizzare vasi di maiolica della stessa forma – come la testa del moro.

Ben presto, nella tradizione della ceramica siciliana, le teste divennero due, un maschio e una femmina, rappresentanti i due amanti, e ancora oggi sono esposti a coppie nelle case siciliane. Le teste maschili e femminili, di solito esposte l’una accanto all’altra, sono ugualmente adornate con gioielli, frutta ornamentale, rami, ghirlande di fiori e foglie, talvolta turbanti, nei tipici colori vivaci della maiolica siciliana, come il blu cobalto, il giallo antimonio e il verde rame. Con o senza turbante, entrambe le teste sono sempre incoronate. I volti, indipendentemente dalla sfumatura della carnagione, condividono caratteristiche simili, come le sopracciglia marcate e le labbra più o meno carnose. L’uomo ostenta sempre un paio di baffi virili e occasionalmente un pizzetto, mentre la donna a volte è ritratta con gli occhi azzurri. Cromaticamente, tuttavia, la pelle corrisponde a ogni coppia di teste di Mori: possono essere chiare o scure, ma sempre uguali, simboleggiando la comunione perenne e un destino condiviso. I due vasi, mettendo drammaticamente in scena una storia d’amore tristemente conclusa, rappresentano l’incontro tra uomo e donna, Oriente e Occidente, Sud e Nord, musulmani e cristiani, conquistatori e conquistati. Non è un caso che questo incontro avvenga simbolicamente nel contesto delle arti decorative della Sicilia, crocevia del Mediterraneo attraverso i secoli.

Versioni leggermente diverse di questa storia sono diffuse in tutta l’isola, ma la fine rimane sempre la stessa: il moro è decapitato dalla devota, tradita siciliana, e la sua testa diventa un vaso di basilico in fiore. La storia è degna di nota non solo per le conseguenze drammatiche e il tema macabro, una commistione di amore e morte tipica dello stile siciliano, ma anche il ruolo svolto dalla protagonista femminile: la nativa donna sedotta prende posizione, agendo sulla sua voglia di vendetta, e uccide il moro che ha conquistato la sua terra e il suo cuore. In diversi modi, questo racconto popolare siciliano è l’esatto opposto della storia del moro più popolare nella letteratura europea, Otello, il Moro di Venezia, che cieco di gelosia, uccide la candida ed innocente Desdemona. Mentre Desdemona è una ricevente passiva delle malefatte di Otello, l’eroina siciliana agisce contro il tradimento del suo amante. Ci sono buone ragioni per credere che il racconto popolare sia stato altresì fonte di ispirazione per la famosa Lisetta da Messina di Boccaccio nel suo Decamerone, dove la protagonista pianta basilico nella testa del suo amante. Le sue lacrime permettono alla pianta di crescere forte e profumata, fino a che i fratelli, responsabili dell’assassinio, la portano via, causando la morte della sorella.

Indipendentemente dai suoi echi letterari, la leggenda ispira la tradizione delle teste di moro, sia che preceda la loro produzione, come si crede, o che la segua, come molti artisti criticamente affermano. Lo scambio tra la leggenda e la tradizione decorativa ha attratto nel corso degli anni artisti e artigiani, i quali hanno ri-significato i vasi in nuove tendenze. Negli ultimi anni, ad esempio, dopo che un gran numero di mori di tutte le carnagioni sono arrivati in Sicilia attraverso il passaggio nel Mediterraneo, nell’immaginario occidentale alcuni vasi hanno assunto delle caratteristiche facciali di persone provenienti da quelle che l’occidente definisce regioni sub-sahariane. Il più delle volte sono figure dai tratti caricaturali, iscritte nella secolare tradizione occidentale della rappresentazione dei corpi neri, la stessa che i dispregiatori della collezione 2013 di Dolce & Gabbana criticano aspramente. D’altra parte, alcuni artisti si sono interessati alle teste di moro interrogandosi sulla loro presenza, sulla loro storia, sul loro sguardo. Quelle proposte da Invernomuto guardano al futuro – e in alcuni casi si guardano a vicenda – con intensi occhi laser. Il loro raggiante sguardo è curioso, senza tempo, profetico. Si interseca con il nostro, e tutti ci identifichiamo nella testa del moro decapitato come in quella della decapitatrice.

 

 

[1] Sara Ilyas, “Did Dolce & Gabbana send racist earrings down the catwalk?,” The Guardian, 26 settembre 2012.

[2]   Julee Wilson, “Dolce & Gabbana black figurine earrings and dress, Are they racist?,” The Huffington Post, 26 settembre 2012.

[3]   Lexi Nisita, “Colonialist chic? No thanks, Dolce & Gabbana,” Refinery29.com, 25 settembre 2012.

[4]   Elisa Della Barba, “Moorish heads ceramics on the DG SS13 runway”, Swide, 23 settembre 2012.

[5]   Michael Neill, “‘Mulattos’, ‘Blacks’, and ‘Indian Moors’: Othello and Early Modern Constructions of Human Difference”, Shakespeare Quarterly, vol. 49, n. 4 (Winter 1998), pp. 361-374.

[6] See Emily C. Bartels, Speaking of the Moor: From Alcazar to Othello (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2008), p. 5.