Italo Zuffi – Zuffi, Italo

pinksummer-italo-zuffi-per-bonani-invitation-card

Comunicato stampa in forma di conversazione tra Italo Zuffi, Luca Trevisani e pinksummer

Luca Trevisani: Italo, la tua mi sembra una mostra sull’ascolto, sull’audience. Sull’audience e sul teatro delle parti che innesca lo/uno sguardo altrui, quando si pone su un artista e il suo lavoro.

Italo Zuffi: La mostra dovrebbe contenere entrambi gli elementi di ascolto e audience. Una performance di gruppo strutturata in funzione della parola, di un paio di frasi lanciate fuori nei momenti finali dell’azione: qui, il pubblico convenuto in galleria potrà partecipare in maniera simile a quello che, ad esempio, determina le percentuali di gradimento dei programmi televisivi (dati inviati a centri di raccolta fisicamente distanti). In un altro lavoro, che consiste nella traccia audio dell’inaugurazione di una recente mostra di Eva Marisaldi, il pubblico potrà invece predisporsi a un ascolto per immersione, sovrapporsi alla presenza e ai comportamenti di un altro pubblico.

L.T: Ieri in treno ho letto due frasi, in due diversi libri, queste:

“L’artista deve essere isolato, poiché solo così può responsabilizzare al massimo il proprio gesto, senza andarsi a cercare un appoggio collettivo.”

“Esisteva là fuori una ‘realtà di fatto.’ Lo stato dell’universo si modifica – si chiese una volta – se un topo lo osserva?”

A me viene a mente la vecchia storia dell’albero che cade in una foresta, senza che nessuno registri qualcosa… e che quindi, in buona sostanza, forse non è caduto affatto…

I.Z: La registrazione di un evento, persino nelle sue forme più algide e distaccate, in potenza è sempre ambivalente, potendo ripristinare un’immagine unitaria e veritiera, oppure generarne una manipolata. Il grado di auto-responsabilità messo in atto dall’artista è anch’esso in rapporto a queste due opzioni. Rispetto alla questione dell’isolamento, certamente anche ciò che rimane isolato è soggetto a forme di registrazione, magari solo più circoscritte o meno sistematiche. Io credo che l’isolarsi, il ‘tirarsi fuori’, sia utile soprattutto a mantenere autonomia e propositività. Non ‘isolamento’ nel senso di ritiro nel deserto – non lo immagino come un gesto dettato da vanità, ma come un semplice esercizio tramite cui controllare cosa lasciare fuori e cosa invece portare dentro.

L.T: Italo Zuffi per il pubblico italiano e Italo Zuffi tradotto in inglese sono la stessa cosa presentata in lingue diverse, o due diversi modi di porsi, due selezioni diverse per due sguardi differenti? O, meglio, l’artista italiano si deve tradurre per l’estero? E per tradurre intendo modularsi/modellarsi per uno sguardo lontano… se non lo fa rischia l’incomprensione?

I.Z: La traduzione viene di solito affrontata con lo spirito del “Che cosa andrà perduto?” Ma sottoporsi a alterazioni è inevitabile all’interno dell’attuale frenesia scambistica, della frequentazione di sempre nuove strutture linguistiche e comportamentali. Poco utile chiedersi se questo sia causa di un indebolimento rispetto alla versione ‘primigenia’. In ogni caso, sugli elementi da vestizione preparati per la performance a pinksummer compariranno entrambe le versioni: quella per il mercato italiano e quella che aspira all’orizzonte internazionale. Riguardo alla tua domanda: certo l’italiano è abile nel cogliere rapidamente l’ambiente circostante, ha in questo senso un colpo d’occhio fenomenale. A volte lo sfrutta per creare modalità camaleontiche, di presunto adattamento, ma poi noti che quella reazione è solo superficiale e temporanea. Tutto sommato, mi pare che siano pochi gli artisti italiani che hanno acconsentito a tradurre in modo permanente la propria pratica per accasarsi definitivamente altrove. Penso comunque che gli sguardi e gli effetti più intensi si producano proprio davanti a forme non del tutto traducibili/trasmissibili.

P: Luca ci fa saltare in mente la pasta Barilla che si trova all’estero nei supermercati, uguale, ma diversa. Modularsi per lo sguardo lontano è possibile? Cosa intendi? Una recente mostra di arte italiana all’estero s’intitolava “Sindrome Italiana”. Sindrome è un termine introdotto da Ippocrate per indicare un complesso di sintomi ciascuno dei quali non esprime un particolare significato ma, unitamente agli altri, rinvia a un quadro clinico riconoscibile. La mostra includeva una quarantina di artisti italiani nati tra i ’70 e gli ’80, ma lo scopo era focalizzare sull’anomalia della modalità italiana rispetto all’arte contemporanea, incentrata esclusivamente sull’iniziativa individuale e sull’incapacità/ impossibilità di creare un sistema o, meglio, sulla nostra fantasia di rendere sistemica tale impossibilità. Ci ha angosciato un poco che l’internazionalizzazione dell’arte italiana assumesse tali connotati. In modo diverso, ma similare, ci ha sorpreso che Sofia Coppola in “Somewhere” riconoscesse al sistema televisivo italiano la capacità di essersi imposto a livello internazionale come portatore di assenza rispetto a qualsivoglia valore che non sia un culo o una tetta.

L.T: Il paragone con la pasta è efficace. La dieta mediterranea è conosciuta e apprezzata, oltre che per il suo valore intrinseco, per la “narrazione” di cui è stata oggetto, che l’ha resa richiesta, famosa, apprezzata… L’artista italiano non ha nulla da invidiare all’artista di un altro paese, la qualità non manca e non è mai mancata, questa che io chiamo narrazione, perché non trovo un altro modo, quella sì. L’arte italiana non è più complicata, debole, autoriflessiva o inutile di quella che nasce e si sviluppa altrove, ne manca di specificità. Manca la capacità di raccontare… L’italiano esportato recentemente ha saputo trasformare lo stereotipo della furbizia in un logo, oppure racconta ancora la storia del meridione del grand tour… e degli spaghetti mangiati con le mani. Sembra che solo così si ottenga l’attenzione dei più, e non con le forme non del tutto traducibili/trasmissibili di cui parla Italo…

P: Certo che intitolando la mostra Zuffi, Italo siamo oltre rispetto all’idea di sindrome italiana, denunci una vera e propria patologia.

L.T: Italo, hai diviso il tuo lavoro in tre aree di interesse: architettura, competizione, tremolio.
Pensando a questa mostra, ma più in generale, mi viene da dire che tutto sia riconducibile alla competizione, intesa come un possibile rapporto col mondo: così l’architettura è la cosa che gestisce il confine tra il dentro e il fuori, e il tremolio la visualizzazione delle tensioni che intercorrono tra il dentro e il fuori… Ricordo osservatori astronomici ciechi che non osservano, camminate che circoscrivono perimetri liquidi, nomi di artisti messi a rivaleggiare come in un gioco della torre… la mia non è un’interpretazione, è una provocazione… è un pungolo… come rispondi?

I.Z: Mi piace la lettura che dai delle tre ‘categorie’, coglie nel segno: architettura come bordo, come limite spaziale, e tremolio come episodio legato alle attività (spesso competitive) che avvengono attorno a quel bordo. Ho voluto suddividere ‘somaticamente’ i miei lavori: in realtà, la loro collocazione in quelle aree non li sottrae dall’appartenere a un unico luogo/orizzonte. E pur non esercitando un’imposizione a favore di una particolare direzione, il ruolo giocato dalla ‘competizione’ si è via via irrobustito. Posso interpretare questa tendenza (sia analizzando il mio caso singolo, sia allargando l’inquadratura su una scena più ampia – il risultato non cambia) come il frutto di una presa di posizione piuttosto esplicita dell’artista, che ricorre a forme reattive in risposta a qualcosa che impediva/impedisce un pieno dominio sul proprio fare.

L.T: Da quello che dici sembra che la categoria “competizione” ti aiuti nel trovare un rapporto con l’esterno, con quello che avviene nel mondo. Appare parente di una delle mille strategie adoperate dall’artista per capire cosa fa, e quindi chi è, nel confronto: c’è l’artista che fa il curatore, quello che scrive articoli, l’insegnante, il pedagogo… tutte attività di certo non nuove, ma che negli ultimi anni sembrano necessarie all’artista per completarsi, per vedersi da fuori… per vedere che posizione ricopre nel mondo, e da lì ripartire. Mi sembra che la tua figura della competizione sia anche questo, un’occasione per creare e/o misurare iterazioni, per capire chi e dove si è, insomma: è uno specchio.

I.Z: Il termine ‘competizione’ lo intendo soprattutto in relazione a domande specifiche che l’artista si pone, del tipo “Di cosa mi sto occupando ora? Che cosa sto inventando ora? Quale è il rapporto tra libertà e verità nella mia pratica?”. In generale, quello che mi piace osservare negli artisti è la ricerca di un chiarimento rispetto alla propria posizione/ruolo. Allo stesso tempo, sono convinto che l’aumento di formulazioni più ‘rigide’ nei nostri lavori (in alternativa o in accompagnamento rispetto alla ‘normale’ pratica da studio), derivi essenzialmente dalla dichiarazione di una debolezza. La performance che rappresenterò a Genova tenterà, in questo senso, di generare un’immagine che rimandi a ambienti in cui vigono gerarchie, ma nei quali è pressoché assente un racconto credibile sul nostro lavoro. Quest’ultimo aspetto è però parte di un’incapacità condivisa: sia gli artisti che i loro interlocutori non hanno saputo stabilire chiaramente i contorni e i criteri di quel racconto. Entrambi ci siamo persi tra la barbarie di ordini dati, ordini ricevuti, ordini assecondati.

P: A proposito di racconto, di narrazione mancante o mancata, intendete la cronaca o la Storia? Rispetto all’arte italiana attuale pare che la cronaca, fitta, fitta, non riesca a fissare il divenire nella storia. Francesco Bonami sul catalogo di Italics afferma che rispetto ai vuoti e alle omissioni di Giulio Carlo Argan, l’Italia è stata vittima del suo rigore critico. Ma scegliere e discernere per la Storia non significa prendersi la responsabilità anche di omettere con un pensiero autorevole più che autoritario? La “modernità debole e diffusa” dell’attuale pratica curatoriale non è allo stesso modo autoritaria e meno responsabile rispetto al futuro? Parlaci della tua mostra, muove da una storia personale, contingente, sia rispetto all’uno che all’altro progetto che presenterai, e tuttavia sembra rimandare a qualcosa di assai meno intimo e relativo.

I.Z: La mostra vorrebbe presentarsi come un’istantanea della mia pratica attuale, spezzata in due tra sottolineature dell’esserci e lo sviluppo di un pensiero sconnesso da ogni dinamica di branco. Vi riferite a Bonami e per me va bene, poiché il nome di Bonami comparirà materialmente in mostra come memoria/traccia di un incontro, anche se l’oggetto ultimo della mia riflessione non è certo lui: la sua presenza è solo allegoria di qualcosa di insanabile che ha condizionato, in questi anni, sia i selezionati che gli esclusi: poiché mentre i primi beneficiavano del clima allegro di qualche parata, gli altri comunque non hanno saputo progettarsi alcuna valida alternativa. L’incapacità di ricorrere a forme collaborative, che ci caratterizza, ha poi fatto il resto. La scena, nel frattempo, diventava sempre più internazionale – ‘internazionale’ non nel senso di compromessa, ma in quello, letterale, di ‘aperta sul mondo’, con le forme irruente delle sue macro-spinte. La questione diviene allora: l’artista italiano, dopo aver interpretato il narratore di una certa idea di ruralità nel suo passaggio verso l’industriale, in cosa potrebbe ora re-inventarsi?

P: Ci piacerebbe che l’intervista finisse con la domanda di Italo aperta, anche se ci verrebbe da consolarvi/ci con le parole di Beckett “Prova ancora. Fallisci ancora, fallisci meglio” (e rispetto alla ruralità ti riferisci all’Arte Povera? Germano Celant non si è mai scusato per le omissioni e i vuoti. Nemmeno Achille Bonito Oliva lo ha fatto. Non avrebbe avuto senso. Eppure, loro non sono storici dell’arte, ma meno che mai sono curatori. Critici, per esclusione: lo storico lavora su quello che esiste e crea una narrazione, il curatore manca di capacità di sintesi, è induttivo, non deduttivo. Rispetto a queste tre figure, il curatore, figura più recente, ‘usa’ gli artisti per informare il suo proprio pensiero, perciò Italo Zuffi diventa Zuffi, Italo) ma lasciamo stare, sistemiamo quello che c’è. Chissà se questi tuoi due progetti che rimandano ad altre gallerie italiane, a altri artisti italiani: Eva Marisaldi e Luca Trevisani per il progetto di comunicato, non siano una metafora del sistema italiano del tanto rumore per nulla all’interno di una famiglia, della Famiglia – forse.

L.T: L’artista italiano, Italo, deve reinventarsi o riscoprirsi? O soltanto essere sicuro di sé? Mi chiedo perché gli assi, i pezzi da novanta, che hanno evitato di cantare la ruralità, facendo ben altro, non li abbiamo saputi apprezzare e esportare… Nelle oscillazioni del gusto vengono sempre prima gli ambienti di Oiticica & friends e solo dopo il gruppo T, prima Eliasson e poi Colombo, prima Posenenske e poi Lo Savio… La leggenda (vera o meno che sia) di Michelangelo Pistoletto che non cede alle lusinghe americane, non vende l’anima al diavolo e rifiuta di diventare un artista pop con green card, a cose fatte, 30 anni dopo, ci insegna qualcosa? E cosa? Uno storico, bellissimo lavoro di Ed Ruscha recita “Hollywood is a verb”. Un verbo, uno stato mentale, un miraggio. Non un luogo, perché non si guarda Hollywood con gli occhi, non la si abita col corpo, ma con il desiderio, o con l’invidia. Ecco, se Hollywood è un verbo, anche l’Italia lo è; dobbiamo smettere di far finta di non saperlo. Ma che verbo è l’Italia?

I.Z: La linea che va dal rurale all’industriale io la percepisco però come un’unica progressione, in cui spaesamento e ottimismo smodato sono legati tra loro. Credo quindi ci sarà un riconoscimento per tutti coloro che hanno saputo rappresentare quella trasformazione da uno e dall’altro dei suoi estremi. Ma a questo punto possiamo davvero chiudere, e vorrei farlo citando un passaggio dall’intervista alla Marisaldi che accompagna la sua ultima personale a Milano (alla galleria Rusconi, e mostra da cui proviene anche l’audio dell’inaugurazione che amplificherò a Genova): “Dimensioni sotterranee della realtà. Disagio aspro nel connazionale”. Un disagio la cui origine non è detta chiaramente, e che allora mi sento libero di leggere in almeno due modi: la non-adesione a una scena sociale e politica desolante; oppure la non-adesione a una scena artistica che, in sostanza, non sembra adoperarsi per il concetto di ospitalità – senza il quale, come si potrebbe mai dar corpo a quel miraggio, quella condizione desiderata di cui parli? Il collante, anche in ambito famigliare, rimane dunque il paradosso.