Luca Vitone – Il volo del grifo

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Federico Rahola è nato a Genova nel 1966, insegna Sociologia dei Processi Culturali all’Università di Genova. Questa conversazione tra Federico Rahola e Luca Vitone per il comunicato stampa della personale di Vitone è stata chiesta da pinksummer. L’amicizia che li unisce, alcune esperienze giovanili comuni e altre individuali del loro percorso, ci sembravano utili a eludere l’ambito meramente estetico. Rimanendo tuttavia in ambito culturale, dal discorso tra Vitone e Rahola emerge l’inadeguatezza o addirittura l’assenza di una politica culturale rispetto a Genova. O meglio, aggiungiamo noi di pinksummer, ci sembra che qui, sempre più, la politica, abbia smesso di svolgere il suo compito precipuo, vale a dire indicare le linee guida, finendo per corrodere l’autonomia dei curatori o direttori di museo. Gli esiti di “centripicità” non sono propriamente felici. Crediamo che produrre cultura non sia solo ospitare eventi o cicli di conferenze. Significa trasparenza rispetto alla suddivisione del budget e agli intenti, significa dare la possibilità ai curatori di costruire un programma. Auspichiamo tra l’altro, che quando Sandra Solimano terminerà il suo mandato, il prossimo direttore di Villa Croce Museo Comunale di Arte Contemporanea di Genova possa uscire da un concorso non rivolto esclusivamente ai funzionari interni al Comune di Genova e abbia un contratto rinnovabile, ma a termine. Molti giovani curatori italiani, sono costretti a andare a lavorare all’estero. Si tratta di professionisti informati che riescono a uscire dall’invisibilità senza la dotazione di budget irragionevoli.

Conversazione Tra Luca Vitone E Federico Rahola
Federico Rahola: Credo che la principale differenza tra noi due, rispetto a Genova, sia che io la geografia la subisco, tu invece la scegli. Per quanto mi riguarda tornare a Genova non è stata una vera e propria scelta, ma la conseguenza di un concorso e una casa libera. Non pensavo di tornare.

Luca Vitone: Sei contento di questa decisione? Quanto sei stato fuori?

F.R: Più o meno dieci anni.

L.V: Personalmente ho delle remore a tornare, non avendo mai ricevuto un invito da un’istituzione genovese che mi obbligasse a valutare un ritorno, non ho mai pensato di ritrasferirmi in città. L’idea mi appare come l’interruzione di un cammino. Tornare a Genova, lasciata nell’84, da una parte mi sembra un tornare a certe sicurezze infantili, lo recepisco come un guardarsi alle spalle, un’idea melanconica di abbandono di un percorso di ricerca. Tutto sommato l’occasione di pensare a una personale a Genova dopo vent’anni e presentare un lavoro che avevo in mente da tempo è di fatto la sublimazione di un ritorno. Il progetto è un ritratto della città che, nonostante il desiderio di lontananza, esercita su di me una grande attrazione. Per anni sono venuto a Genova solo saltuariamente e sempre per brevissimi soggiorni. Con l’occasione della mostra Stundàiu, nel 2000, a Palazzo delle Esposizioni a Roma, ero tornato a Genova con l’intento di cercare, di riguardarla col tentativo di riappropriarmene. Tra i lavori in mostra c’era anche un itinerario che raggiungeva le dimore di illustri genovesi che nei secoli, pur senza dimenticarla, hanno lasciato la città per trasferirsi a Roma.

F.R: Credevo che Stundàiu fosse un altro tipo di lavoro, una sovrapposizione di mappature, pensavo ad una proiezione di nomi e vie genovesi sulla mappa di Roma, tipo Canneto sopra Via Margutta e viceversa.

L.V: Avevo intenzione di fare un lavoro su un luogo, uno qualsiasi, per mostrare i suoi aspetti caratteriali ma alla fine scelsi Genova perché conoscendola a sufficienza mi sentivo più libero di restituirne le peculiarità e i luoghi comuni, come la tirchieria o, se si vuole, la parsimonia, la gloria passata, le vie strette, le creuze e la musica. Una musica polifonica a cappella per cinque voci che si chiama trallalero. Era il Duemila, da dieci anni non passavo più di due o tre giorni di seguito in città. Non c’era ancora Leo, mio figlio. Per quell’occasione passai a Genova alcune settimane, volevo rivederla e capire quali immagini estrarne per quel progetto espositivo. Stundàiu è un termine genovese che ho trovato in un’intervista a Montale, una parola che condensa in sé le diverse sfumature di quella che si potrebbe definire l’attitudine del genovese: una costante insicurezza che lo induce a diventare presuntuoso nei confronti del mondo e che si trasforma in frustrazione in quanto l’altro non se ne accorge, non lo sa. Questa presunzione è una sorta di illusione interna che origina il brontolio, il mugugno (“L’atteggiamento tipico di orgoglio e timidezza misto a diffidenza. La pratica quotidiana del mugugno, un certo complesso di inferiorità nei confronti dell’altro, bilanciato dal senso di superiorità di ordine morale”). Genova è lenta come dice Piovene. Nei confronti del contemporaneo, del nuovo, del futuro. È dubbiosa, d’altra parte il futuro in sé non può rappresentare una sicurezza. Sono tutti luoghi comuni che riflettono Genova nell’immaginario collettivo. Villa Croce è un museo dall’86, ma non se ne conosce effettivamente l’esistenza se non si hanno rapporti con la città; la Gamec di Bergamo ha molta più visibilità, eppure Bergamo è una città assai più piccola di Genova e con una storia culturale e economica meno influente. La lentezza in questo senso diventa invisibilità.

F.R: Genova è un esempio di enclave: da fuori la si pensa molto più piccola e quando dici quanti abitanti ha, la gente non ci crede, è percepita grande come Perugia e sicuramente più piccola di Bologna. Da dentro ovviamente non è così. Ma è una città proiettata sul passato prossimo, un passato che sembra sempre più vivo del presente, eppure negli anni ’80 era dura, l’industria smantellata, l’eroina. Dagli anni ’90 sono cambiate molte cose. Ora viene percepita come una città bella e anacronistica: “adoro Genova, l’ho vista di sfuggita prendendo il traghetto”. C’è stato il film di Winterbottom in cui sembrava di stare a Marrakech. Nel 2010 Genova è una scoperta: 500 anni dopo Colombo, Genova diventa una città esotica, da scoprire.

L.V: Genova ha avuto momenti topici senza formare mai un sistema, gli eventi rimangono scollegati tra loro come isole, è una città fortemente individualista, oligarchica: costituita da famiglie potenti che non hanno mai voluto creare un luogo comune che rappresentasse la città. C’è Palazzo Ducale, ma non si è mai voluto che rappresentasse realmente la città. Anche oggi, come centro culturale, non si ha l’impressione che segua un programma.

F.R: E’ solo questo che manca a Genova?

L.V: Io vedo questo perché è il mio ambito.

F.R: Ci sono cose che accadono, la città è relativamente vitale.

L.V: Per tornare a Bergamo, Cresci rilanciò l’Accademia di Belle arti con Vettese, Di Pietrantonio, Arienti, Piccolo, Daneri, Pioselli, Cavenago, Paci tra gli altri, anche in questo ambito Genova langue per fortuna da qualche anno c’è Cesare (Viel), Fiorato, Benvenuto. Le accademie sono una buona spia della dinamicità di una città. Non a caso, alcuni giovani artisti formatisi a Bergamo cominciano a farsi conoscere, sto pensando a Giovanni Oberti, Meris Angioletti, Luca Resta.

F.R: Pensavo a com’era la città alla fine degli anni Ottanta. Ci sono stati momenti di cui tu ed io abbiamo vissuto gli ultimi rivoli, non la fase montante. Ricordo il centro sociale Officina e gli amici con cui lo frequentavamo, che da lì a qualche anno avrebbero lasciato la città. Una diaspora. Però accanto a questa forza centrifuga, Genova ha una storia centripeta: conta quello che succede dentro e non fuori.

L.V: Rispetto all’individualismo si potrebbe anche ipotizzare che Genova sia un modello ante litteram. Non è stato creato un luogo civico rappresentativo, salvo l’eccezione di quello religioso preesistente. Al contrario a Milano, dove il luogo pubblico un tempo aveva una funzione importante, oggi ognuno si limita a pensare al proprio interesse, i progetti rispetto allo spazio pubblico decadono sistematicamente nel rimandarne continuamente l’apertura: il Museo della Moda, il Museo del Design, il Museo del Presente, il Museo del Novecento. Il tutto si traduce in un estremo ritardo rispetto all’Europa e l’immagine della città viene costantemente ridimensionata. Genova in questo senso è un modello inconsapevole che ha insegnato come non condurre una città. Quel guardarsi tra le proprie mura che provoca l’invisibilità. A Milano si parla di progetti che poi decadono, a Genova non si parla affatto di progetti.

F.R: E’ questa invisibilità che la rende un luogo esotico, perlomeno nel nord d’Italia. Ma se Palermo è sovraesposta, l’esotismo di Genova dipende dal fatto che è sconosciuta. Poi Genova è esotica anche perché ha una forte presenza migrante in centro, nel centro storico, mentre a Milano come in altre città, gli immigrati sono sbattuti in periferia. Il centro storico di Genova ha poco a che fare con le altre città del nord, a parte Torino forse, la gente che lo abita non è quella che penseresti di trovare. Winterbottom, con un occhio molto da fuori, la vede come una città del Maghreb.

L.V: Negli anni ’70, nell’immaginario cinematografico e televisivo, il centro storico di Genova era un luogo torbido, dedito all’illegalità. Ricordo un film di Zinnemann (“Il giorno dello sciacallo”) in cui un sicario che doveva attentare alla vita di Charles de Gaulle arriva a Genova e compra documenti falsi e un’arma di contrabbando in Sotto Ripa. L’angiporto è per sua natura un ambiente borderline, colluso.

F.R: Un’altra caratteristica dei genovesi è l’ipersensibilità geografica nei confronti della città, un’attenzione ossessiva ad ogni più insignificante cambiamento. I genovesi non ammettono un’immagine che non sia iconograficamente corretta. Milano ad esempio è abitata da ottocentomila persone, ma si fonda principalmente su chi pendola, la maggioranza della popolazione è diurna, e purtroppo invece comanda solo quella che vi risiede. E comunque è una città iconoclasta. Qui se il Carlo Felice cambia tipo di grigio, i genovesi s’incatenano.
Fino agli anni ’50, anche Milano aveva una presenza popolare molto forte in centro, a Brera e ai Navigli, poi con l’ondata di speculazione, queste zone sono state progressivamente bonificate dalla presenza proletaria. Negli anni ’80 anche a Genova si parlava di riprogettare il centro storico, ma fortunatamente il progetto si è scontrato con dei limiti strutturali: molte case sono buie ai piani bassi e quindi non appetibili, questo genera la possibilità di vivere in centro con prezzi da equo canone. Il centro storico di Genova ha delle condizioni così particolari che gli permettono di continuare ad essere abitato da under class e difficilmente potrà essere museificato. Prendi Via Prè, benché vi abbiano investito, non riuscirà mai a diventare Boccadasse, e allora si sono inventati la città galleggiante, tutta finta, davanti a quella vera. Poi dato che il centro storico è molto esteso, se un luogo si rivaluta, un altro si squalifica, come sta accadendo in Via della Maddalena. È un po’ come nella foresta amazzonica: ti fai largo col machete, e la natura ricresce dietro di te non appena sei passato. La storia del posto ha il sopravvento su qualsiasi razionalità speculativa.
Passiamo ora al tuo lavoro su Genova.

L.V: Come dicevo prima si tratta di un ritratto della città, un video. Un’immagine aerea che parte da ponente e arriva a levante. La visione del tessuto urbano osservato dal mare, una lunga visione, che risulta interminabile, che parte da Voltri per arrivare oltre Nervi. Una città adagiata sul mare. Due linee dell’orizzonte parallele: il confine tra il mare e le case, sotto e la linea che separa le montagne alle loro spalle e che non permettono l’espansione urbanistica, e il cielo, sopra. Un percorso sul mare, per più di 20 km, un montaggio orizzontale che ripercorre la struttura della città. Poi ci si alza sulle montagne, a destra del Monte Fasce, ci si addentra in un ambiente brullo, disabitato, quasi selvaggio, per lo più senza alberi, prevalentemente roccioso con estesi manti erbosi. Un luogo remoto appena alle spalle della città. Lì un pifferaio è intento a suonare, suona con il piffero ligure un brano struggente della tradizione popolare, una poesia rivolta alla città, a qualcosa che non esiste più o che non si riconosce, qualcosa di imprendibile. Il video ha una durata di 5 minuti e 27 secondi. Due sono i sonori: l’elicottero e il piffero. E’ struggente come l’idea di pittoresco, fa parte di una memoria costruita che non c’è più, ma che vorremmo rivivere. È un tornare nei luoghi di un’infanzia idealizzata.

F.R: Idealizzata, ma non nel senso di pittoresca: il pittoresco è andare in Provenza cercando il paesaggio dei quadri di Cézanne, è quando l’immagine di una cosa ha il sopravvento sulla cosa stessa.

L.V: E’ vedere i luoghi come ce li siamo immaginati.

F.R: Depositi sul luogo la tua idea del luogo. Saudade, si dice a Rio de Janeiro.

L.V: Il video si apre con il suono dell’elicottero che in seguito viene sostituito in dissolvenza con il suono del piffero, la vibrazione delle pale si perde sui profili montuosi dell’entroterra e torna sul finire per continuare quando l’immagine si annerisce. Penso a questo lavoro da molto tempo, una decina di anni, inizialmente volevo usare uno scioglilingua come dedica alla città. Il piffero è arrivato dopo, quando si pensava, insieme a voi (Pinksummer e Anna Daneri), al progetto che avrei desiderato realizzare ai Giardini di Plastica, è da lì che ho rimaneggiato l’idea. Con gli anni il lavoro si è trasformato: come dicevo prima, all’inizio non c’era un piffero, ma una voce umana, uno scioglilingua. Mi viene da pensare alla mostra alla Pinta (Genova, 1988), fu la mia prima vera personale in una galleria, era pervasa da un bisogno di iconoclastia nei confronti dei luoghi. Ha rappresentato la mia prima riflessione su cosa siano i luoghi che viviamo, l’assenza di radici; le fotocopie che utilizzai in quella mostra sottolineavano la spersonalizzazione del luogo. Avevo bisogno di fare tabula rasa, anche linguistica, rispetto all’emozione colorata degli anni ’80. Negli anni ’90 si guardava al Minimalismo per allontanare Salvo, Ontani, Cucchi, per arginare la loro ondata di colore. Ma la mia è stata anche una generazione fragile. Allora c’erano poche opportunità, le mostre di allora, per la loro organizzazione, oggi ci sembrano antiche, non c’erano premi, borse di studio o produzioni. La prima mostra istituzionale della nostra generazione si tenne a Prato nel ’91, curata da Grazioli, con Martegani, Moro, Arienti, Catelani, De Lorenzo. Poi nel ’94 ci fu quella di Rivoli curata da Pasini e Verzotti e tra gli altri c’erano Moro, Arienti, Beecroft, Cattelan, Airò, Viel . Allora non c’era lo stesso rapporto di continuità generazionale, non c’era la continuità che ci può essere oggi tra me e Luca Trevisani, ci conosciamo e ci stimiamo reciprocamente.

F.R: Questo forse dipende dallo schiacciamento generazionale, una sorta di compressione che investe anche altri ambiti sociali, penso alla distanza diminuita tra genitori e figli.

L.V: Forse. Dipende, credo, soprattutto dal fatto che la nostra generazione ha iniziato a insegnare. Allora gran parte dei docenti, quelli che sono stati i nostri professori, erano soltanto insegnanti e non artisti presenti sulla scena. Le generazioni di Cucchi, Kounellis, Ontani, Clemente, Anselmo, non ha insegnato nelle accademie, e quando l’ha fatto, mai in Italia. Solo Fabro a Milano. Per motivi burocratici e di una malsana gestione della didattica, le accademie hanno creato un vuoto negli anni Ottanta. Nel decennio successivo, da Garutti in poi, molti artisti professionalmente visibili hanno iniziato a insegnare. All’estero questo ruolo didattico degli artisti, nelle scuole più importanti, non si è mai interrotto e ha promosso generazioni di artisti..
Noi siamo una generazione di autodidatti. Abbiamo imparato sul campo come si deve allestire una mostra, come si presenta un lavoro a un gallerista o a un curatore. Come pensare un catalogo, si vedano le pubblicazioni uscite in quel periodo per farsene un’idea. In Italia, fino agli anni ’70, c’era un numero di istituzioni che funzionavano e avevano relazioni a livello europeo, sto pensando a Palma Bucarelli a Roma, alla GAM di Bologna: istituzioni dalla conduzione non tanto diversa da quelle presenti in altre realtà europee; poi c’è stato un collasso istituzionale. Con la nascita del Beaubourg cambiano le cose e noi abbiamo perso tempo. Soltanto negli ultimi 15 anni la situazione è migliorata, penso a Torino come centro del contemporaneo e poi il MART, il MADRE, il Mambo, il MAXXI, Ratti, Spinola Banna… Ora noi insegniamo come si monta una mostra, come ci si rapporta con le gallerie, i curatori, la produzione del lavoro, la committenza e si parla di strategia, di sistema. Noi siamo cresciuti nell’idealismo, pensavamo che l’idea fosse sufficiente.

F.R: La vostra/nostra non è quasi identificabile come generazione, ma come piccole realtà che sono emerse; ora è in atto il tentativo di istituzionalizzarle.
Comunque volevo chiederti due cose sul video. La prima riguarda il pifferaio: cosa si porta via il pifferaio magico? E poi la carrellata è in orizzontale, per forza schiacciata in lunghezza, e quindi si tratta di una visione di Genova che è possibile solo da fuori, perché da dentro è impossibile. Genova la si vede per esteso solo dal mare, come se fosse impossibile costruire un racconto unitario da dentro e da ciò forse dipende la sua invisibilità.

L.V: Non ci avevo pensato, è vero… e tu che lettura dai a questo?

F.R: In primo luogo Genova è un’invenzione urbanistica del fascismo e poi esiste un forte narcisismo delle differenze, tipo che se sei di Sampierdarena dici vado a Genova e non vado in centro. Questa lunghezza è l’unica direzione che la città possiede, un budello di terra con due linee: l’Aurelia e la Circonvalazione, e quando sei dentro a quel budello non hai la percezione di una città così lunga. E’ un modo di vedere la città cartografico, hai sempre dei punti a scartamento ridotto.

L.V: Una rappresentazione cartografica che è difficile riconoscere quando la guardi dal mare. Mi viene da dire che questo lavoro riconduce inconsapevolmente alla prima mostra alla Pinta, in cui presentai una planimetria in scala 1:1 della galleria stessa posizionata sul pavimento. Come dicevo prima, rappresentava il mancato rapporto tra noi e il luogo; la sua duplicazione ne sottolineava la perdita. In questo mio ultimo lavoro c’è forse il tentativo di restituire un’immagine della città, ma questo tentativo risulta fallito perché il luogo rimane irriconoscibile. Ritorno al punto di partenza. Genova si nasconde dietro a questo strumento musicale che c’è e non c’è, un piffero “magico”, oggetto archeologico introvabile di una cultura materiale in via d’estinzione. Non credo esista un museo che ne custodisca una copia. Il piffero ligure o delle 4 province, l’ho conosciuto tramite il Tralallero e in particolare Stefano Valla.