Plamen Dejanoff

pinksummer-plamen-dejanoff-invitation-card-2010

Fummo ingenue a leggere la virata manifatturiera, avvenuta intorno al 2005, di Plamen Dejanoff, come un ritorno alla tangibilità del lavoro, dopo anni e anni di remix post-produttivo. Dejanoff stava captando piuttosto l’ultima deriva del lusso, annidata nella piega new age dell’aura energetica emanata da ciò che ci circonda: ambiente, oggetti, cibo, pets. D’altra parte il diktat su cui si regge il mondo occidentale (e dato il parziale universalismo della dottrina, per occidentale non s’intende alcun orientamento di tipo cardinale), è che i consumi devono mutare. Da lì a poco l’élite del “piccolo popolo” sarebbe stata pronta a disfarsi con dissimulato imbarazzo della Porsche Cayenne per l’automobilina elettrica; gli M&M candies e le lattine di coca cola sarebbero stati sostituiti nelle dispense dai frollini di kamut integrale e succo di soya e mirtillo rosso biologici; nelle case gli oggetti di design industriale sarebbero stati rimpiazzati con oggetti ecosolidali, ecocompatibili, legati al luogo e alla tradizione, resi unici dalle imperfezioni tipiche del “fatto a mano”. Non era più tempo per Dejanoff di apparecchiare costosi oggetti di design mescolati a opere di artisti da “waiting list” su piattaforme lisce e translucide, si doveva recuperare la scultura e anche, a suo modo, la pittura, addirittura di genere, il ritratto; si doveva ritornare ai materiali della tradizione quali marmo, bronzo, legno, ceramica, vetro e, soprattutto, i prodotti dovevano essere
rigorosamente handmade, con tanto di dichiarazione sul certificato di autenticità, non importa poi se la mano non è la sua, perché suo è il brand stampato a lettere cubitali sui manufatti che, del periodo postproduction hanno il gene pop tramandato dai suoi eroi dell’ovest Andy Warhol e Jeff Koons e, in modo assai più cattivo, dal suo eroe dell’est Sigmar Polke.
Con i “New Works” Plamen Dejanoff si apprestava a entrare nel progetto a lungo termine “Planet of Comparison”.
Di Plamen Dejanoff si dice che sia un artista marketing oriented, alcuni poi pensano che economizzi l’arte, altri che culturalizzi l’economia, di fatto la sua fascinazione priva di qualsivoglia distanza critica rispetto al capitalismo speculativo, svuotato dalle “affettività” produttive, ne fa senza dubbio un artista che ha avuto a che fare con la cortina di ferro. Progetti artistici e vita nel suo lavoro si mescolano così concretamente che non si riesce a capire mai quando finisca la realtà e inizi la rappresentazione, e ammettendo pure che reale e finzionale siano categorie assai relative, non solo oggigiorno, ma in assoluto, noi crediamo (speriamo) di intravedere in queste modalità il cinismo gelido di un hacker che attua nei suoi progetti una sorta di simulazione (Capitalism Iperreal Ism. Forse).
Era il 2002 quando appoggiammo un segmento della sua paradossale operazione di marketing identitario basata sull’idea di brand che chiamò coraggiosamente “Collective Wishdream of Upperclass possibilities”.
Ci fece acquistare la copertina n. 122 di Flash Art Italia per ripresentarsi, dopo la rottura del duo Heger/Dejanov, con un nuovo nome, una nuova città, una nuova casa/studio, una nuova auto e un logotutto suo commissionato al più “stiloso” studio di Parigi. Affidarsi a professionisti del marketing aziendale, il cui know how nulla aveva da spartire con l’individuo e i suoi drammi, fu il suo modo di ripartire dopo una crisi potente e a posteriori, ma questa è una lettura troppo incline al romanticismo perché Dejanoff possa condividerla, una strategia per ibernare i dolori dell’esistenza in un luogo freddo, di non appartenenza. In seguito a tale progetto artistico dal titolo antipatico i suoi discendenti portano un nome
studiato a tavolino con i professionisti di un’agenzia per l’immagine.
Una volta disse: “I’m interested to think about art by means of pre medium of automobile” (Sono interessato a pensare l’arte passando attraverso il pre medium dell’automobile), l’automobile è centrale rispetto a Dejanoff la cui poetica è informata da un processo duale di smaterializzazione e sublimazione, assimilabile a quello attuato dalla finanza con i subprime.
Per la seconda personale da pinksummer scelse per l’invito una fotografia in cui compariva lui stesso, di tre, quattro anni, su una lussuosissima automobilina a pedali in un parco di Sofia.
Al primo incontro con pinksummer si presentò con una macchina sportiva della BMW, frutto di un contratto che firmò insieme a Swetlana Heger nel 1999, in cui cedettero per un intero anno alla casa automobilistica di Monaco di Baviera, lo spazio nei musei e nelle pubblicazioni delle mostre a cui erano stati invitati; BMW utilizzò l’accordo per trovare nuovi potenziali vettori di marketing nell’ambiente culturale.
Nel 2002, da pinksummer, accanto a una pila di n. 122 di Flash Art Italia con il logo e l’edificio di Ernst&Gruntuch in Hachesher Markt a Berlino in copertina, Dejanoff presentò “Alle Autos”, una serie di modellini in cristallo di differenti tipi di automobile che l’agenzia per l’immagine a cui si era affidato per cambiare pelle, gli aveva consigliato per capire quale di esse avrebbe meglio calzato la nuova identità che stavano costruendogli. Gli oggetti non sono più da considerare una estensione dell’individuo, bensì rappresentano una parte essenziale rispetto a un concetto di identità assemblabile e smontabile a incastro come una costruzione di lego.
Nel 2006 Dejanoff presentò alla Kunsthalle di Kiel una performance con il medesimo titolo di un dipinto di Sigmar Polke “Hohere Wesen Befalen (Highter Beings Comand)”: l’opera di Polke presenta su una tela bianca un triangolo nero sull’angolo in alto a destra; “l’ordine dall’alto” di Dejanoff presentava una Porsche Cayenne nera a cui gli estetizzanti meccanici porscher (salopette blu, t-shirt rossa, scarpette Asics gialle), accompagnati da un dj-set, sostituivano parti nuove di serie con ricambi più ricercati e costosi. Scoprimmo in quell’occasione che un freno in ceramica della Porsche Cayenne costava quanto una Fiat Panda, ci rimanemmo secche e iniziammo a prestare attenzione a quante di quelle autovetture
si incontravano quotidianamente, anche nelle strade della parca Genova. Dejanoff in “Highter Beings Comand” dimostra in modo assai esplicito la sua falsità acritica e apolitica rispetto alla dottrina capitalista, rifacendosi al “Capitalism Real Ism” di Polke che, sulla falsariga del “Socialist Realism” rispetto al comunismo sovietico, focalizzava sull’ipocrisia libertaria delle democrazie costruite attorno al consumo, giungendo alla conclusione logica che per mantenere tali libertà e tali democrazie, un consumo di tipo dirigistico doveva essere di necessità impartito come ordine dall’alto. Il video realizzato sulla performance “Hohere Wesen Befalen” fu presentato anche in una serata organizzata dalla Porsche per
i suoi clienti VIP. Dejanoff sa giocare al cavallo di Troia.
Rispetto al comunicato stampa, abbiamo fatto questo lungo excursus sull’opera di Plamen Dejanoff, mosse in verità dalla necessità di giustificare la terza personale di un artista assai complesso e raffinatoche, invero, non sente mai il bisogno di giustificare nulla, neppure dichiarazioni tipo “But art is a luxury item, so everything we do is luxury. Just having the idea of making something in bronze is a luxury” (Ma l’arte è un articolo di lusso, di conseguenza qualsiasi cosa facciamo è lusso. Soltanto pensare di fare qualcosa in bronzo è un lusso). A proposito di “Capitalism Real Ism” e di articoli di lusso comunque, non è un caso che l’annuncio di bancarotta della Lemhan Brothers abbia coinciso con i gli hammer prices alle
stelle e il sold out dell’asta performance di Damien Hirst da Sotheby’s a Londra; le aste successive delle big auction houses sarebbero state un bagno di sangue.
Arrivando alla terza personale di Plamen Dejanoff da pinksummer, egli presenterà un frammento omeglio un’impeccabile astrazione, prodotta appositamente per la mostra, del padiglione di bronzo che vedemmo per la prima volta nella sua interezza in occasione della sua personale al Mumok di Vienna.
Leggero e traforato come un ricamo e nel contempo stabile e pesante come la grata di un carcere, il padiglione di bronzo è emblematico rispetto al real estate project dal titolo “Planet of Comparison”. Il progetto muove da una contingenza legata alla biografia dell’artista: l’acquisto o l’eredità, alla fine del comunismo, di sette case nella sua città natale Veliko Tarnovo, capitale medievale della Bulgaria e epicentro dei Balcani. Dejanoff ha inteso intervenire sulle architetture vernacolari chiamando architetti dell’Europa occidentale dal nome conosciuto, per farne un museum quartier attraverso la joint venture con istituzioni culturali dell’Europa occidentale. La manodopera e i materiali, su cui non esistono specificazioni,cabbiamo ragione di credere che siano invece autoctoni dell’Europa orientale. In poche parole si tratta di un’operazione di colonizzazione bella e buona, la medesima che, celata dalla parola integrazione, hanno agito le companies, sempre in anticipo sui governi, alla caduta del muro. I pianeti galleggiano nell’universo distanti l’uno dall’altro, si possono influenzare, ma solo in termini remotissimi, l’interazione è impraticabile perché c’è il rischio di collisione, di catastrofe. Abbiamo ragione di credere anche, che in “Planet of Comparison”, il museum quartier di Veliko Tarnovo, realizzato interamente o parzialmente, Plamen Dejanoff compari due pianeti assai estranei, quelli delle due Europe.