Luca Trevisani – In bocca

 

 

COMUNICATO STAMPA

 

Pinksummer: Talvolta si ha come l’impressione che il cibo, seppure solo in Occidente, sia diventato lo sfondo effimero degli assetti patologici sociali. Come se di fronte all’eccesso e allo spreco degli alimenti si tendesse a investire meno sulla sostanza e più nella forma. Il cibo si assaggia, si degusta, non si mangia: la fame, intesa come necessità, appare anacronistica, se non proprio volgare. Ti abbiamo sentito dire che la dieta è una scultura sociale e, in questo senso, quanto la tua dieta è stata informata dalla scelta di trasformare gli avanzi delle tue pietanze, nei paesaggi fatati delle carte che presenterai per la tua quarta personale da Pinksummer dal titolo In Bocca? E quanto in questa mostra, ci riferiamo soprattutto agli still life reliquario, riguarda il recupero della sacralità del cibo?

 

Luca Trevisani: La nostra dieta – qualsiasi essa sia – è una vera e propria scultura, è un processo di formalizzazione del mondo, una messa in forma delle sue energie, operata tramite scelte di gusto, appartenenza, e ideologia. La dieta è un gesto di controllo del corpo che disegna economie, alleanze, società e paesaggi. Ogni opera d’arte è una rappresentazione in scala della realtà, un modo per mettere a posto le cose, fare ordine, ricordarci le gerarchie. Lavorare con quel che mangiamo, con quel che ci mantiene in vita, è un’operazione politica, perché ci ricorda che la nostra identità è costruzione in divenire, un coagulo incerto di materia e narrazioni.

Lavorare in cucina non è un revival dalle provocazioni futuriste, o dei rituali di Gordon Matta-Clark: il nocciolo della questione non è coinvolgere il cibo come eclettica materia prima, ma agire sul cibo in quanto collante collettivo, storia materiale, precipitato sociale, scrittura biologica. Non si tratta di fare una scultura col cibo, ma di fare del cibo scultura, monumento, esperienza, riconoscerne la saggezza e celebrarne il potere. Mi definisco scultore, come ben sapete, perché assaggio la materia, e perché tento di raccontare a mio modo le storie che ci attraversano: hardware e software, si direbbe in inglese. Il sapere materiale e le narrazioni con cui lo organizziamo. Una cosa bella della materia è che è vecchia, antica, ancestrale, ci obbliga a un bagno di umiltà, è un ottimo antidoto al noioso mondo dell’egomania sociale. Abitiamo un presente costantemente acceso, in cui dobbiamo farci trovare sempre aggiornati, accelerati, scattosi, pronti a reazioni istantanee, a sfoderare opinioni su qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Ecco, la mia reazione è quella di guardare al ciclo delle stagioni, di tornare a studiare un ritmo biologico differente, ma senza esser nostalgici o ingenui. Voglio trasformare la fragilità biologica del cibo in un laboratorio materico innovativo, in una fantasmagoria ludica, ma anche etica, e politica.

Alcuni mesi fa ho iniziato a svuotare e seccare frutta e verdure di stagione, per farne delle ciotole di tempo, delle reliquie magiche, che trasformavano l’umido in secco, e il molle in eterno. Inizialmente pensavo fossero degli oggetti docili, anche teneri, e buffi, ma man mano che il tempo passava mi rendevo conto della loro violenza.  Dopo qualche tempo, ho iniziato a conservare gli avanzi dei miei pasti, come per ringraziare quel che mi sfama. L’acido dei limoni, e il loro inchiostro simpatico ha fatto il resto, componendo questi mandala di carta. Questa mostra è fatta da due serie di lavori che nascondono sotto panni decorativi un’energia dissacrante e disperata. Sono fossili, perché il fossile, a pensarci bene, è un grumo di materia mal digerita, mai assimilata, vomitata nel mondo. Queste sculture sono un messaggio analogico irriverente, ci ricordano che nessun corpo è neutro.

I fossili minano qualsiasi idea di autore, nel loro mondo non ci sono invenzioni, ma solo scoperte, ibridazioni e sincretismo, la loro scrittura procede per impollinazione, sono il risultato di un metabolismo collettivo. A me intessano i materiali, più che le forme, e tento di stuzzicarli per liberare la loro voce, di stanarli per mostrare la loro saggezza, di farli suonare per sentire quanto conformista e limitato sia il nostro modo di guardare e pensare il mondo.

 

PS: Si dice che gli animali si nutrano e solo l’uomo in quanto animale eminentemente simbolico mangi e, addirittura in questo senso, si potrebbe trasformare il cartesiano cogito ergo sum in edo (dal verbo latino edere/divorare) ergo sum, nel senso che il cibo è una forma di iniziazione al sapere perché l’uomo mangiando pensa agli alimenti. La crisi sembra che spinga le persone ad affollare i ristoranti e tu hai definito questa tendenza una sorta di scrittura isterica, non è un caso che molta disperazione contemporanea si trasmuti in anoressia, in bulimia nervosa e in altri ambiti sociali in obesità. Non credi che in questa società della tavola il cibo tenda a divorare ogni forma di complessità, fino ad appiattire anche il paesaggio urbano sulla gastromania?

 

LT: La nostra conoscenza del mondo passa attraverso i sensi, e avviene nella manipolazione diretta delle cose: mangiare digerire espellere trattenere sono solo alcuni momenti della ruota della metamorfosi, che è sempre in moto. In un mondo ossessionato dal puro e dal certo, abbiamo bisogno di nutrire processi altamente energetici, per trovare la forza per essere curiosi.

A me appassiona la materia come nutrimento, non il cibo dalla cultura mainstream, che in pochi anni ha trasformato un rito di convivenza in un feticismo vuoto e aggressivo, in uno status symbol da conquistare e esibire. Il mondo del cibo per come viene raccontato e vissuto è un tristissimo laboratorio steroideo, dove le nostre identità sono definite in base a parametri da positivismo ingenuo e tossico, è un incubo prestazionale senza alcuna allegria, dove l’unica fame è quella di successo, e a lievitare deve essere la nostra posizione sociale. In tutto questo turbine nevrastenico di doveri sociali e cucina performativa che fine ha fatto la curiosità? La curiosità per me è tutto: è un lavoro costante, né leggero né innocente, né necessariamente pacifico, ma dalla ricompensa assicurata. Essere curiosi non è una festa, o un atto giocoso, infantile o colorato; essere curiosi è una dipendenza, che obbliga a essere aperti al mondo, a mettere in discussione le proprie convinzioni e i propri equilibri, per cercare soluzioni a problemi che non sappiamo ancora di avere. È come fare opere d’arte fingendo di non averle fatte, ma di averle trovate, come un fossile scoperto nel cuore di una montagna, magari fatto di frutta essiccata …

 

PS: Ludwig Feuerbach le cui idee influenzarono Engels e Marx affermava “Der Mensch ist, was er isst”, “l’uomo è ciò che mangia”, frase che nella lingua tedesca gioca sulla somiglianza della terza persona singolare del verbo essere e del verbo mangiare. Il materialismo radicale di Feuerbach si schierò contro ogni filosofia che negasse l’unità psicofisica dell’uomo, arrivando a affermare che noi coincidiamo con ciò che ingeriamo. D’altra parte, ai tempi, siamo intorno alle metà del XIX secolo, esistevano seri problemi di sussistenza, pertanto Feuerbach disse che la fame non abbatte solo il vigore fisico, ma priva l’uomo della sua capacità di pensare e dunque della sua umanità. Sosteneva che alla base del perfezionamento della cultura c’è una buona alimentazione e che per cambiare un popolo bisogna cambiare le sue condizioni materiali. Adesso, seppur in Europa fame e carestie sembrino domate, la politica agricola comunitaria PAC, istituita nel 1962, assorbe circa il 40% del bilancio totale UE e tende a facilitare ancora i grandi latifondisti che si oppongono al cosiddetto green new deal andando a incidere sulla qualità dei prodotti dell’industria agroalimentare rispetto all’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, che impattano fortemente sull’ambiente e sulla qualità delle nostre abitudini alimentari. Per ricondurci a una lettura che ci hai consigliato, il pane selvaggio, il pane alloppiato, di cui tratta Camporesi, che induceva il popolo a vagheggiare quiete cuccagne artificiali, ha assunto sembianze più subdole e zuccherose, un po’ come le guerre? I cibi si trasformano, come gli avanzi e i fossili alimentari delle tue opere, anche in sentimento?

 

LT: Negli anni di Weimar, dal 1919 al 1922, un pervasivo odore di aglio riempiva gli spazi della mensa del Bauhaus, e i corpi degli studenti che vi mangiavano. Alma Mahler, la moglie di Walter Gropius, da buon asceta quale era, trovava quell’odore semplicemente intollerabile.

Secondo Bernd Wedemeyer-Kolwe il Bauhaus fu la prima scuola d’arte a contenere la ginnastica ritmica nei suoi corsi. Ecco, fu anche la prima in cui venne introdotto un rigido disegno alimentare, regolato da Georg Muche e ideato da Johannes Itten, secondo le regole della dottrina mazdazista.

Ispirato allo Zoroastrismo, il programma implicava un rigido vegetarismo, imponendo una dieta rigorosa fatta di cereali e noci, succhi e verdure, senza disdegnare l’uso di potenti lassativi. Tra le lezioni e i rituali, Itten persuadeva gli studenti a concentrarsi alla depurazione dei loro corpi, con lo scopo di raggiungere una forma di pulizia intestinale per equilibrare il corpo individuale e influire su quello spirituale, parte di un’esperienza comunitaria condivisa e vincolante. Ecco, Tu mi chiedi del cibo come sentimento, e io ti rispondo con l’amaro calice dell’utopia…

Una storia tra le tante per ricordarci come il corpo e il cibo siano impegnati in un duello senza fine, quello tra la percezione della tecnologia come strumento evolutivo e la sensazione perturbante di essere abitati e definiti da un corpo estraneo. Credo nel potere cognitivo dell’arte e della scultura, ma soprattutto nel potere conoscitivo della cucina, come forma di sapere democratico che si esercita dal basso, come lente d’ingrandimento per capire, e per decidere, l’animale che vogliamo essere.

 

 

PS: L’insorgere di malattie di rilevanza epidemiologica si inserisce sempre in un determinato sfondo sociale-antropologico. Carol Gilligan In a Different Voice, afferma che le malattie psichiche della donna sono state fraintese perché il modello di lettura alla base è quello maschile. A proposito di costruzioni di identità attraverso la ridefinizione della dieta, l’anoressia determinata dal volontario affamarsi rischiando la vita si è diffusa nella seconda metà del XX secolo e ha preso il posto dell’isteria dell’Ottocento come patologia essenzialmente femminile. L’anoressia colpisce soprattutto femmine adolescenti, benestanti, bianche e occidentali. Rudolph M. Bell in La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal medioevo a oggi, ha gettato un ponte tra l’anoressia delle mistiche nel medioevo e l’anoressia nervosa contemporanea. È difficile ricondurre al malfunzionamento dell’ipofisi gli ascetici digiuni di sante come Caterina da Siena e altre che tra il 1300 e il 1500 furono affette da patologie alimentari, che lo studioso riconduce alla lotta per l’autonomia identitaria e alla conquista dei diritti in una società patriarcale, attuata interrompendo il meccanismo vitale dell’alimentazione e ripudiando di fatto la fisicità. In questa luce le sante anoressiche del medioevo paiono circondate da un’aura femminista. Sia le sante nel medioevo che le ragazze contemporanee che inseguono la magrezza lanciata da Twiggy negli anni ’70, perseguono ideali ben accolti dal proprio tempo. Con la Controriforma che tacciò di eresia le patologie alimentari delle ascetiche, la pratica del digiuno estremo tra le sante è andata via via scomparendo. Il cibo talvolta invece di essere democratico mezzo di coesione diventa elemento di dispersione e gioca ancora un ruolo principale nella differenziazione tra i generi maschile e femminile. La cucina intanto ancora oggi è più territorio femminile, mentre l’alta cucina con la sua tendenza a de-sostanzializzare, eterizzare, estetizzare e infine a miniaturizzare le porzioni è prevalentemente maschile. Esisterà mai un orizzonte alimentare coesivo e comune e eventualmente come sapremo riconoscerlo?

 

LT: Penso alla Regola monacale, alla comunità monastica che condivide il silenzio, il teatro di verdura del chiostro, e la prassi quotidiana. Senza regole non viviamo, è come giocare a tennis senza rete, non c’è né capo né coda. Se il cibo è trionfo di messi e libagioni senza pudore né direzione, allora io propongo la povertà francescana, che lotta per un solo unico diritto, quello di non avere diritti, e che si posiziona al di là del controllo politico, nella metafisica. La povertà non come privazione, ma come sapere frugale, la capacità di riconoscere il necessario.

 

PS: I lavori che andranno a informare la mostra In Bocca, sembrano rimandare alla necessità del passaggio da una posizione ego a una posizione eco: muovendo dal cibo, riconducono all’idea dell’economia circolare della vita, che a differenza dello sviluppo economico produttivo lineare dell’antropocene, è inclusivo, non produce scarti di sorta che si tratti di materiali, piuttosto che di marginalizzazione di capitale umano e sociale. Gli scarti produttivi dell’economia lineare sono indigeribili: non possono essere gettati e smaltiti, ma solo spostati un poco più lontano nel pianeta. Il cibo ha cambiato la biomassa della Terra, se pensiamo che il 60% dei mammiferi presenti sul pianeta sono animali allevati per essere cibo, il 36% è costituito dagli umani e solo il 4% sono specie selvatiche. Oltre a sussurrarci con garbo che nessun corpo è neutro, fossili e avanzi indigesti di In Bocca indicano l’urgenza dell’approccio ecologico integrale e anche della solidarietà o meglio della pietas?

 

LT: La cucina esiste per mantenere il fuoco, e quindi il rito. Queste mie ricette sono terapeutiche ma non perché vogliono lenire, ma per tenere aperte le ferite, non si propongono di cauterizzare il nostro io, ma di scucire ogni sua difesa. Altari alla fragilità, vanitas, memento mori, natura morta, chiamiamole come volete, il genere è quello. Sono l’immagine perfetta del nostro inciampare in un mistero, un’immagine dal corpo solido ma dall’anima liquida, sfuggente ma non svanente, che resta come un monito senza tempo. Il cibo è il collante tra il nostro corpo e il paesaggio tutto, mangiare esorcizza la paura dell’eterno, i lavori che metto In Bocca interrogano quel che accade alla materia quando questa si separa dalla nozione d’individuo, alla fine dell’io, oltre il sogno narcisista, quando quel che siamo va dove mai sapremo.

 

PS: La tua arte è connotata da sempre dal tentativo di fissazione perenne del deperibile. Si tratta di una sorta di ripudio del trascorrere del tempo o di fascinazione rispetto all’eternità?

 

LT: È un po’ come l’acqua, che incarna l’idea del moto perpetuo, una continua ridefinizione del tutto. L’alchimia è un inno alla porosità delle cose, è fiducia olistica, è teoria del Tutto, riconoscere che tutto è dappertutto. Reagire al culto del sé con la sospensione dell’io, il poco controllo, la bellezza dell’inesperienza, il mistero.

Si dice che Henri Bergson ritenesse che la nostra coscienza non si trovasse nel corpo, ma che questa esistesse al di fuori di noi, e prima di noi, là, fuori, dispersa nel mondo. Ecco che il cervello si faceva stazione ricevente; la mente non era radicata in noi come una pianta coriacea, ma piuttosto un’attenta antenna capace di captare vibrazioni, una radiolina che ascolta segnali che ci preesistono, insomma, e non un megafono sicuro di sé che bla bla bla tutto il tempo. Gli alchimisti si arrendono alle facoltà narcotiche della materia, sono golosi cultori della metamorfosi, e quindi del divenire incessante delle identità. In un mondo ossessionato dal puro e dal certo, dal clinico e dal certo, serve guardare a procedimenti energetici e improbabili come l’alchimia, trovarvi la forza per ignorare le interdizioni e i tabù. Occorre però oculatezza: dell’alchimia non adottiate la vulgata spiritualista e sempliciotta, ma la sinestesia, la fusione dei sensi, la fiducia disperata.

Ripensate il trapianto, l’innesto, la mutazione, rubate i gesti al botanico irrequieto, e utilizzateli per dar vita a immagini, sculture, azioni. Sono questi metodi e strade che distorcono e sublimano la nostra idea di ricerca scientifica, e la traghettano in pratica artistica, in favola visiva, in libertà.