Mystical geographies and landscapes of deep time: three artists explore Mongolia

Comunicato stampa

PS: Ogni cultura assume diversi tipi di razionalità per ordinare le percezioni, Robert Lenoble in Storia dell’Idea di Natura, afferma che la percezione si scontra evidentemente con tutte le difficoltà oggettive dell’osservazione e che la motivazione dei dogmi è molto più profonda della percezione in sé. Dal XVII secolo l’agente dell’evoluzione delle idee rispetto al concetto di natura passa dall’estetica alla scienza, e la scienza ha indubbiamente tralasciato la ricerca delle cause finali. Il meccanicismo ha restituito una natura senza intenzioni, da pilotare e manovrare come un qualsiasi altro arnese, producendo nell’uomo una sorta di isteria della collezione e della classificazione. Istigando anche nell’uomo una potente forma di aggressività nei confronti dell’ambiente, prodotta dalla frustrazione. Sicuramente il museo di storia naturale è emblematico rispetto al tentativo, se non proprio di colmare l’angoscia, almeno di recuperare un poco di centralità.  Nell’opera di William Hogarth Boys Peeping at the Nature, Iside è una statua sul piedistallo e i ragazzi che la ritraggono, sono puttini paffuti scappati dalla cornice. La scena accade nel Settecento nella penombra del museo di Belle Arti. Ogni tentativo di classificazione della natura essendo arbitrario e congetturale ci mostra il limite, l’impossibilità? Eventualmente tale limite e codesta impossibilità su cui il tuo lavoro pare imperniato è da cogliere, al di là della fascinazione post-moderna per l’approccio moderno, come un invito a rinunciare o come sollecitazione a ricercare con una certa urgenza nuove modalità di approccio all’ambiente, per non dire alla natura?

Mark Dion: Il tentativo di classificare la natura da un punto di vista scientifico occidentale non è per niente un compito arbitrario o congetturale. È il tentativo di trovare un sistema di classificazione basato sulla natura stessa che rifletta e riveli i rapporti evolutivi. Gli stessi strumenti che consentono di farlo si sono evoluti dai tempi di Linneo, in cui si comparavano gli organi sessuali delle piante come base per la classificazione, fino all’approccio anatomico comparato più ampiamente comprensivo elaborato da Cuvier, fino alle nuove tecniche e tecnologie di tassonomia molecolare. Le origini della sistematica affondano le radici nella teologia naturale, tanto che il naturalista ha immaginato il suo compito come l’enumerazione delle opere di Dio stesso. Già nel XIX secolo si immaginò con arroganza di essere giunti quasi al compimento dell’opera. Tuttavia, il consolidarsi della questione evolutiva conferì al processo della sistematica un nuovo mandato, quello di illuminare le relazioni evolutive. Tutte le società costruiscono tassonomie, anche se sono particolarmente semplici, tipo cose che volano, cose che nuotano, cose che strisciano a terra. Non tutte queste società distruggono il mondo attorno a loro con tanta efficiente ferocia. Le scuole tassonomiche occidentali sono scientifiche per natura e si sforzano di essere naturali più che artificiali. I nostri amici biologi stanno cercando di trovare un sistema di ordine che davvero possa mappare le relazioni evolutive. È forse ironico che le società che costruiscono i più sottili e elaborati ordini sono anche le stesse che, attraverso l’accoppiata nefasta di colonialismo e capitalismo, sono state le più violentemente distruttive. Se guardiamo a ciò che dice Linneo nella prima edizione del Systema naturae (1735), leggiamo “Il primo passo nella saggezza è sapere le cose stesse”, e prosegue, “Questa nozione consiste nell’avere una reale idea dell’oggetto; gli oggetti sono distinti e conosciuti attraverso la classificazione metodologica e attribuendo loro nomi appropriati. Dunque, la classificazione e la denominazione saranno il fondamento della nostra scienza.” Quindi, credo che la tua domanda sia: la classificazione è anche il fondamento del dominio e della distruzione? Credo che sia piuttosto uno strumento, che può essere utilizzato come parte di un programma di saccheggiamento e denigrazione ma che può, e molto spesso è, uno strumento di protezione e promozione della biodiversità. Senza dubbio nella ricerca dell’ordine in natura c’è stata una componente di dannosa ricerca di gerarchie, nonsense teologico naturale e molti tipi di guai ma è stato uno strumento per capire l’evoluzione, la conservazione della fauna selvatica, e per sfatare pseudo scienze come l’eugenetica. Per tutto il tempo in cui ho guardato a diversi sistemi gerarchici di ordine, quello che è risultato chiaro è che coloro che fanno l’ordine sono quelli che siedono stabilmente in cima a esso. In ogni caso, siamo oltre a tutto ciò. Oggi non esistono più apici o direzioni per i sistematisti.

Come artisti possiamo esplorare l’impulso a ordinare in modalità che sono comunque scettiche. Possiamo usare e usiamo l’umorismo per minare le supposizioni perentorie di quelli che organizzerebbero le persone, i viventi, i luoghi, e anche gli oggetti in classifiche. Non penso che l’inclinazione a organizzare cose e idee sia di per sé maligna, ma accoppiala alla supremazia, al colonialismo, all’estrazione di risorse senza impedimenti, al capitalismo e al fanatismo avremo un patto piuttosto catastrofico. Il nostro lavoro come artisti è disgiungere l’ideologia dalla scienza e segnalare dove e come la pseudo scienza e i programmi politici inquinano la questione scientifica.

PS: In mostra presenterai un “ritratto” dell’esploratore scienziato americano Roys Champman Andrews, entrato nel 1906 come custode del reparto di tassidermia all’America Museum di Natural History e diventato, nel 1934, direttore dello stesso, grazie soprattutto alle quattro spedizioni che fece in Mongolia, nel deserto del Gobi, tra il 1922 e il 1930, considerate le più grandi spedizioni paleontologiche del XX secolo, che come bottino fruttarono al museo americano, tra le altre cose, i resti di un velociraptor, e le prime uova fossili di dinosauro mai rinvenute, appartenute a un oviraptor. Di fatto Andrews, esperto di mammiferi, si era recato in Mongolia per trovare le origini dell’uomo, che una curiosa teoria dell’epoca riteneva fossero da ricercare in Asia centrale. Andrews, scienziato e avventuriero dalla mira infallibile, sembra che abbia ispirato il personaggio di Indiana Jones. Fin da ragazzino l’esploratore si distingueva nel Wisconsin per essere un bravo tiratore e un abile tassidermista e la sua autobiografia si intitola Under a Lucky Star. Ti affascinano le leggende dei dragon hunter?

MD: Roy Chapman Andrews non era solo un paleontologo esploratore, ma era anche uno scrittore di libri per bambini sulla scienza naturale. Scrisse libri sui dinosauri, sui mammiferi preistorici, sulle balene e altri argomenti di storia naturale. Alcuni di questi erano illustrati da Rudolf Zallenger con il quale successivamente ho studiato alla Hartford Art School. Come un bambino curioso che cresce in una casa senza libri, frequentavo la book mobile, una libreria su ruote che visitava diversi quartieri permettendo l’accesso dei libri ai bambini. Qui conobbi le opere di Roy Chapman Andrews. In quel periodo (tardi anni Sessanta) c’era molto poco che si potesse trovare facilmente sui dinosauri, e non esistevano nemmeno molti giocattoli di dinosauri. Come tanti bambini ero completamente ossessionato dai dinosauri e trovare i libri di Roy Chapman Andrews fu incredibilmente importante per me. È attraverso questi libri che ho appreso per la prima volta di un posto così lontano chiamato Mongolia.

Così, nell’avere la grande fortuna di lavorare con RedHero e viaggiare con Tuguldur, Duke, Paolo, Alice, Matteo e Dana in Mongolia, la mia mente è andata ancora una volta ai dinosauri. Di fatto, molti scienziati e professionisti che abbiamo incontrato nei musei in Mongolia erano paleontologi. La Mongolia rimane uno dei posti principali per i dinosauri nel mondo.

Ho anche una lunga e profonda relazione con l’American Museum of Natural History. Così sono riuscito a visitare il meraviglioso archivio e la biblioteca di ricerca e vedere le fotografie originali della spedizione in Mongolia condotta da Andrews nel 1922. Sotto molti aspetti Andrews fa parte del pantheon di naturalisti del tardo Ottocento, primo Novecento sui quali ho prodotto dei lavori. Questi includerebbero figure come William Beebe e David Fairchild, che rappresentano anche una transizione tra il naturalismo della tradizione europea e una nuova era di biologia evolutiva. Queste figure sono lontane dall’essere modelli perfetti rispetto ai valori progressisti contemporanei e devono essere visti nel contesto del loro periodo storico.

Roy Chapman Andrews in molti modi è il modello per lo scienziato avventuriero macho che è divenuto un personaggio sia nella scienza che nel giornalismo (National Geographic Magazine) e nella cultura popolare (libri come She e eroi finzionali come Indiana Jones). In un certo senso il mio lavoro, che lo trasforma sia in campione che in action figure, è un modo per criticare scherzosamente lo status di questo modello storico che ha influenzato l’immagine del mondo dipinta per persone come me durante l’infanzia.

C’è molto da districare nel lascito di Andrews. Prima di tutto la sua missione non era trovare i dinosauri, ma piuttosto trovare le origini dell’uomo. Più o meno in quel periodo, molti nel campo della storia naturale e in particolare quelli dell’American Museum avevano un pernicioso credo razzista e suprematista bianco riguardo alle origini dell’uomo. Erano molto coinvolti nella nozione di razza. Ho l’impressione che la motivazione principale della ricerca delle origini della razza bianca in Mongolia fu la risposta all’evidenza che richiamava l’Africa come luogo di nascita dell’umanità. Una volta che i dinosauri e in particolare le uova dei dinosauri sono state scoperte, l’enfasi della missione è cambiata o almeno ha subito un’inversione.

PS: La tua riflessione sulla natura e sull’ambiente e la socialità passa anche, o forse primariamente, dal cibo, di fatto l’evoluzione della specie umana, è passata attraverso il nutrimento: dall’australopiteco, alle differenti specie di homo, fino al sapiens, sembra che le diete siano variate moltissimo. È sicuro ormai che dobbiamo alla scoperta del fuoco, alla cottura e all’arte culinaria, che hanno reso i cibi più digeribili, la circostanza che abbiamo potuto dedicarci con relativa tranquillità a coltivare la cultura e la T/terra. Il fatto poi di essere onnivoro, ha permesso all’uomo di colonizzare il pianeta. Rispetto alla contemporaneità, il cibo che proviene dalle colture e dagli allevamenti intensivi è responsabile dell’inquinamento che provoca il cambiamento climatico al pari della logica estrattiva che sottende all’utilizzo dei combustibili fossili.  Pur lavorando con biologi e scienziati sociali, tendi a definire i tuoi metodi di analisi come squisitamente a-scientifici.  Hai dimostrato tuttavia, preparando banchetti e festini notturni sorvegliati da telecamere per animali selvatici autoctoni, che proprio come l’uomo, anch’essi tendono a preferire i cibi pronti, piuttosto che cacciare o raccogliere. Procioni, volpi e falchi penetrano sempre più frequentemente le aree urbane densamente popolate: hai interpretato questa sovrapposizione di territori, quello addomesticato, consacrato all’uomo e quello selvaggio, come un segno di distruzione dell’era dell’Antropocene. L’artista Peter Fend quando gli abbiamo chiesto come si può fare marcia indietro rispetto alla catastrofe ecologica, ci ha risposto senza esitare che dovremmo tornare al pre-neolitico, vale a dire a pescare, a cacciare e a raccogliere. L’anoressia, malattia sottile contemporanea, che nelle contrade occidentali, colpisce sempre più adolescenti di entrambi i sessi, viene descritta come un controsenso alla natura delle cose. Il rifiuto del cibo, tipico dell’anoressia, a proposito di confini da attraversare, sembra dipenda dall’incapacità di distinguere la linea tra fatto e finzione, tra realtà visibile e la realtà invisibile della psiche, tra fame e emotività.  Il cibo può diventare funesto in assenza di linee di confine tra il domestico e il selvatico?

Dana Sherwood: Addomesticamento; domare, colonizzare e sfruttare la natura è questione di controllo. Proprio come noi cerchiamo di controllare i nostri territori per tenere ogni tipo di invasore al di fuori, teniamo fuori i parassiti, i cervi, i procioni, i roditori e altre creature. Controlliamo i nostri corpi, il microcosmo interno dell’universo. Controllare è un riflesso dell’istinto di sopravvivenza umano. La psiche umana si è adattata a questa mentalità conservativa e protettiva dall’avvento dell’agricoltura. Passare del tempo con le popolazioni nomadi in Mongolia ha rivelato un forte contrasto con la vita contemporanea, antropocentrica e il suo ethos di sopravvivenza che è dannoso all’ecologia del pianeta. Impressionata dalla relazione più simbiotica che i nomadi hanno con la natura, sono stata ispirata per la realizzazione di un nuovo corpus di opere che si mescolano con la natura, in particolare con i cavalli, per creare un linguaggio energico, invisibile, inudibile. Ispirata dal passato sciamanico e dalla sua rinascita nella Mongolia contemporanea, ho esplorato modi di connettersi con la natura attraverso il regno invisibile dei sensi.

 

PS: Per la mostra da pinksummer, presenterai un video nuovo di zecca basato sulla comunicazione tra umani e non-umani come paradigma di collaborazione che prescinde dal linguaggio, giacché una volta citando Wittgenstein hai affermato che se anche un leone parlasse, non avremmo alcuna possibilità di capirlo. Hai definito gli animali selvatici che compaiono nei tuoi video o nei tuoi disegni e acquerelli come collaboratori e rifletti sulla comunicazione inter-specie come possibilità per uscire dalla catastrofe ecologica. Hai detto di essere stata influenzata in Mongolia dallo sciamanesimo, una pratica sociale legata al sacro, che vede nello sciamano colui che sa (saman) comunicare con lo spirito degli animali ausiliari, e con il mondo delle energie, per riportare l’armonia e di conseguenza la bellezza nel mondo, perché la bellezza non è mai separata dalla moralità nella tradizione. Solo attraverso il raggiungimento dell’equilibrio con il mondo naturale e l’energia che sottende alla sua armonia, si può dunque guarire e prosperare. Hai assimilato il ruolo dell’artista a quello dello sciamano, il sacro, nella tradizione estetica, non sta nel superare la provvisorietà del tempo e il confine/o degli idiomi? In qualche modo nel recupero dell’innocenza e eventualmente del luogo perfetto?

DS: La mia prima regola per fare arte è: abbracciare la paura e la perdita del controllo. Dai miei primi progetti con animali selvatici e addomesticati ho lottato con il concetto di controllo e le aspettative verso le reazioni degli animali in accordo con la mia visione artistica. Ma questo era un errore. Ogni volta pianificavo i miei video in questo modo: vedendo gli animali come i miei performer, e aspettandomi che seguissero le mie indicazioni, i miei sforzi erano in qualche modo frustrati. Ho lottato con tutto ciò per molto tempo finché, mentre stavo facendo un video in Danimarca, mi sono trovata sempre più contrariata dal cervo rosso che si rifiutava di apparire in camera e assaggiare il cibo preparato appositamente per lui. Era una cosa inaspettata, perché mi era stato detto che questi cervi erano molto domestici essendo stati nutriti dai cacciatori per tutto l’anno. Con riluttanza, ho cercato di trasformare questa frustrazione nell’argomento del video. The Wild and the Tame che si è rivelato poi essere molto più convincente del progetto originale. C’è una citazione di Robert Smithson sul processo di fare arte nella quale io mi riconosco molto, soprattutto in queste particolari situazioni. Smithson afferma (rispetto al viaggiare in America centrale): “Tutte quelle guide non servono. Devi viaggiare a caso, come i primi Maya, rischi di perderti nelle selve, ma è questo l’unico modo di fare arte”. È così ho affrontato il video per questa mostra: See/Sight Equus Mongolia. Invece di utilizzare il cibo per attirare i cavalli a partecipare, ho tentato di comunicare con loro attraverso vie energetiche in base alle mie ricerche sulle cerimonie sciamaniche in Mongolia e nelle Americhe. Ho inoltre studiato la comunicazione equina e la guarigione attraverso il lavoro con l’energia. In un certo senso sono diventata lo sciamano, ma anche il bambino, che fa i suoi primi tentativi di discorso. Il video è girato con una camera che ho modificato per riprendere in infrarossi, uno spettro luminoso invisibile all’occhio umano, che rende l’invisibile visibile e trasforma l’energia in arte.

PS: Quando la Nasa qualche anno fa presentò il progetto di usare la luce laser per incrementare la velocità del passaggio di dati sia in downlink che uplink soprattutto verso destinazioni lontane nel sistema solare, la comunità scientifica pare si divise, perché l’utilizzo del potente sistema ottico avrebbe potuto rendere la Terra visibile a predatori alieni di galassie remote, come si trattasse della giungla. Hai tradotto il poema Khan Kharanqui della regione Altai della Mongolia nel linguaggio “SAA”, un linguaggio binario inventato dagli scienziati, pensato per comunicare con gli alieni e manipolato dagli artisti o meglio dall’artista, da te. Il linguaggio “SAA” ispirato al messaggio di Arecibo, trasmesso dal radiotelescopio di Arecibo in Porto Rico nel novembre del 1974 era indirizzato all’ammasso globulare di Ercole M13, a 25000 anni luce di distanza.  Era composto da 1679 cifre binarie, prodotte dai numeri primi 23 e 73. Ordinando il messaggio in righe e in colonne chiunque, anche un alieno di M13, avrebbe potuto ottenere un crittogramma che rilasciasse informazioni.  Una sorta di linguaggio universale di estrema sinteticità. Nel 2001 si credette di trovare la risposta aliena al messaggio di Arecibo, nel pittogramma nel grano a Chilbonton in Inghilterra. Hai scritto che il poema si prestava alla traduzione in lingua “SAA” perché tratta di pratiche di comunicazione eterogenee e di viaggi in diverse dimensioni e poi perché gli eventi magici contenuti nel poema sono strettamente correlati al sistema di misurazione mongolo, essenzialmente di natura binaria. Sappiamo che gli sciamani in Mongolia si dividono in bianchi e neri, i primi sono preposti all’ascesa al cielo, i secondi, alla discesa agli inferi. Entrambi però hanno un ruolo sociale positivo. Sappiamo che la cosmogonia mongola comprende 99 dèi, quanto è la distanza in anni dalla Terra, dal luogo in cui il tenebroso Khan Kharangui relegò la principessa amata del poema.  Cosa intendi quando affermi che molte cose in Mongolia hanno un significato binario? Raccontaci del tuo progetto 81 Meters Backwards to the Darkest Dark. È un tentativo di attualizzazione e di universalizzazione dell’antico poema mongolo dell’Altai o un’interpretazione? Vorresti fosse decodificabile anche per gli alieni?

 

Tuguldur Yondonjamts: Grande evento limitato (10 00000000000000000000000000000)
Luce bellissima (10 0000000000000000000000000000000)
Il grande occhio (10 00000000000000000000000000000000000000000000000000)
A. Janj khutugtu A.Rolbiidorj (matematico mongolo del XVIII secolo) ha nominato numeri grandi fino a 66 zeri con questa poetica, ma con un linguaggio visivo abbastanza forte. Mi interessava la modalità di pensiero e l’idea era “visibile” mentre viaggiavamo in Altai. La campagna visitata era un luogo perfetto per investigare il poema e naturalmente i numeri sembravano essere significativi. Avrei il desiderio di decifrare petroglifi, rocce, fossili come se potessero nascondere una certa mappa. L’immaginazione dell’artista è ancora limitata alle informazioni visive che continuiamo a raccogliere o esperire. La metodologia della creazione è stata ispirata dall’andamento del poema, ma ha anche attraverso l’esperienza fisica di temperature, giorni e notti nell’Altai.
“Cavallo che non ha spazi vuoti tra le sue costole e che non ha articolazioni nelle gambe. Cavallo che dà consigli all’uomo. Cavallo che pensa in modo indipendente, navigando e coprendo dimensioni lontane, portando il suo cavaliere “… (parte del poema di Khan Kharanqui). È un paradosso reinterpretare un poema antico oggi, poi ho cominciato a pensare automaticamente a qualcos’altro, ma non a un cavallo. C’è anche un aggiornamento nella storia, un Myna comune appare nella poesia mentre esegue una missione. L’uccello Myna non è originario della Mongolia, sono descritti come “Spavaldi e arroganti, non in grado di prendere comandi umani, mangiano bacche e non insetti nei campi” (Capitolo 13. Come Myna andò alle Hawaii, Gli animali alieni di George Laycock). La presenza di quell’uccello dà l’impressione di un’influenza buddista nell’epica, quindi l’epopea fu scritta / riscritta in tempi diversi. Forse è il momento di riscriverlo in linguaggio binario, dopo essere sopravvissuto all’oralità di un vecchio copione mongolo, successivamente al cirillico mongolo…
Si, ero interessato al processo di linguaggio SAA che ci ha messo 27 anni a concludere un certo cerchio di immaginazione. Scienziati, Alieni, Artisti, questo strano triangolo dovrebbe continuare a realizzare ubicazioni geografiche in magici buchi neri.
Il poema epico di Khan Kharangui è ben noto in Mongolia. Racconta la storia di un protagonista il cui nome può essere tradotto come Darkest Dark (traduzione dell’artista) e il suo paese d’origine si trova a 99 anni di viaggio. Il protagonista viaggia con suo fratello verso la sua amata principessa che può prevedere gli eventi con tre giorni di anticipo e il cui viso illumina qualsiasi direzione in cui lei vada. E c’è un figlio del cielo, l’avversario di Darkest Dark e il cui paese d’origine si trova nel trentatreesimo strato del cielo. Il protagonista attraversa diverse sfide e competizioni e porta la principessa nel suo paese lontano. Il geloso figlio del cielo si vendica diverse volte sul protagonista. Alla fine dell’epopea il protagonista, suo fratello e il loro amico riuniti, riceveranno nomi di Insetti dal padre del protagonista. Il poema viene intonato come una lunga canzone durante la notte da un cantante ben addestrato accompagnato da Morin Khuur (uno strumento musicale con binari di corde di cavalli) nella yurta coperta. Le alte montagne innevate sono descritte nel poema come un paese natale di Darkest Dark e anche come un luogo in cui lui dorme e dove fu avvelenato e trasformato in mostro a 90 teste.

PS: Nel 1990, con la fine del comunismo, la Mongolia, soprattutto nelle regioni rurali e montane ha iniziato a recuperare la tradizione sciamanica come fosse una sorta di filosofia della crisi in grado di guidare il tragico passaggio dal socialismo al post-socialismo, ricreando un humus positivo per negoziare con l’indeterminatezza della transizione. In questo senso lo sciamanesimo assieme alla musica e al canto ha ristabilito in qualche modo la continuità storico-culturale, spazzata via dalla Repubblica Socialista della Mongolia instauratasi negli anni Trenta. Lo sciamano in Mongolia è sempre stato preposto dalla comunità al riassestamento dell’equilibrio per creare armonia e concordia; l’abilità dello sciamano non è mai stata separata dal suono, dal canto, dalla musica, come forma di comunicazione intersoggettiva. Come ti rapporti con lo sciamanesimo e con il suono nel tuo lavoro?

TY: “Uno sciamano è in grado di saltare sette volte dalla cima di una montagna per raggiungerne il fondo”, ho sentito questo da bambino. Naturalmente, non sapevo quanto fosse alta la montagna, se la voce si basasse sul sogno o sulla realtà fisica di qualcuno, o se fosse una delle “storie” raccontate tra i bambini della Mongolia comunista negli anni Ottanta. Non sono un esperto conoscitore di sciamani, ma esistevano da un tempo così remoto che non riesco nemmeno a immaginare. Rappresentano viaggiatori esperti, la cui conoscenza degli spiriti, delle piante, degli animali, del paesaggio e delle relative condizioni metereologiche li ha portati a ricoprire un ruolo significativo nell’antichità, ma anche nell’attuale società mongola. La tuta / abito da sciamano è equipaggiata con diversi oggetti e ognuno di essi ha un ruolo / uso specifico per il viaggio verso diverse dimensioni. Si mimetizzano abbastanza bene in qualsiasi ambiente, quindi hanno praticato le loro conoscenze anche nella Mongolia comunista. Hanno viaggiato abbastanza lontano, sono affascinanti per molti.
Nel mio video Myna Song, ero curioso della diversa percezione del tempo di insetti, uccelli e umani. Ho provato più volte ad alterare la velocità del suono di uccelli e insetti e trovarci qualsiasi parola dei dialetti o della lingua mongola. In qualche modo tutto ciò ha innescato una certa sensazione, che si riferisce a una situazione onirica. L’aggiunta di livelli nell’editing, l’alterazione della velocità del suono secondo gli uccelli e gli insetti, la scrittura della storia usando il sistema a pelle di serpente, la mappa di un osso, tutti questi passaggi sono stati fatti per imitare il poema.

PS: Sulla pagina di RedHero si legge: “RedHero is a long-term local and international project constructed around Mongolian arts and culture with a particular focus on the capital city Ulaanbaatar, whose name translates to red hero”. Com’è nato questo progetto in Mongolia?

RedHero: L’idea di RedHero nacque da un incontro, nel 2014 a Venezia, tra Paolo Rosso e Dulguun Batbold, co-fondatore del progetto. Dulguun propose di sviluppare un progetto culturale che avesse come perno Ulaanbaatar, capitale che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica e dalla successiva indipendenza da essa nel 1992, ha iniziato una rapida ascesa di crescita e sviluppo, basti pensare che il 45 per cento dei mongoli ha meno di 24 anni e l’età media della popolazione è di 27 anni. La capitale mongola, nominata durante il periodo sovietico “eroe rosso”, è una città asiatica come non te l’aspetteresti, caotica ma non esageratamente affollata, piena di sabbia, asfalto, grattacieli, case di legno e yurte e ospita quasi la metà degli abitanti del paese (che sono in tutto tre milioni, una delle più basse densità di popolazione al mondo). Come una città europea della rivoluzione industriale, durante i mesi invernali è inquinata per la combustione del carbone e le stufe a legna, che la rendono la capitale più inquinata (e fredda) al mondo. La tradizione mongola e le rapide trasformazioni della sua capitale, in cui si riversano anche interessanti contraddizioni, ci hanno spinto, insieme al duo di video-makers Kinonauts (Matteo Primiterra e Matteo Stocco), a mappare visivamente, in maniera sinuosa e non programmata, gli aspetti più eterogenei di questo affascinante paese. Questa mappatura multimediale, una metodologia già applicata ai progetti di ricerca Guwahati Research Program (Assam, India) e Los Caminos del Café (Cuba), è diventata uno strumento d’indagine che si lega ad artisti internazionali e mongoli che vengono invitati ad esplorare, in un progetto a lungo termine, il territorio. Ospitando più della metà della popolazione della Mongolia, Ulaanbaatar è un’importante punto di partenza, ma non sufficiente per capire l’anima di questa cultura millenaria, legata ancora alla vita nomade e allo sciamanesimo. Per questo RedHero si sposta anche fuori i confini della capitale.

In collaborazione con RedHero: Paolo Rosso, Alice Ongaro Sartori, Kinonauts

www.redhero.mn

Si ringrazia la Fondazione Sergio Poggianella di Rovereto per aver concesso il prestito di:

Autore ignoto, Cavallo sciamanico, Cm 22×26