Peter Fend/Yona Friedman – Filling the absence
Comunicato stampa
“Ciò che è successo a Genova è un grande shock. Non solo per Genova, ma anche per l’Italia e per l’ingegneria civile. Quel ponte era, in sostanza, troppo vulnerabile?
(…) Pinksummer ha due artisti che lavorano con i palloni. Uno viene dall’insegnamento di Peter Cook (Archigram) e l’altro muove da un progetto iniziato con Gordon Matta-Clark.
(…) Cosa si può fare adesso? Peter Fend insieme alla galleria potrebbero aiutare? Le altre persone in copia sono state coinvolte nell’idea del “ponte-pallone”, o Matta-Clark, quindi, questa è la ragione; potrebbe essere un’iniziativa di Pinksummer. No?Peter”
Ci scrisse Peter Fend in una e-mail del 15 agosto 2018, con in copia una sfilza di nomi a noi del tutto sconosciuti. Ma con Fend spesso accade, fa parte, come dire, della sua geografia “oltreconfine”.
Di fatto la mostra Filling the Absence di Peter Fend e Yona Friedman, curata da Andrea Canziani e Emanuele Piccardo, con un film documentario co-prodotto dal Museo Nivola e da Pinksummer, curato da Elisa R. Linn e Lennart Wolff, si potrebbe dire che in origine non sia stata una scelta della galleria, nel senso che ci siamo accordate su sollecitazioni essenzialmente tendenti a sovrastimarci, che ci piaceva potessero vibrare da noi e con noi.
Quando tornammo in galleria dopo la pausa estiva, ai primi di settembre, ci vennero a trovare Emanuele Piccardo e Andrea Canziani, i quali citarono l’esempio del gallerista Max Protetch, che immediatamente dopo il crollo delle Twin Towers invitò più di 100 architetti e designers a presentare proposte per lo sviluppo del sito, successivamente denominato Ground Zero. All’inizio del 2002 Protetch, in collaborazione con gli editori di Architectural Record, organizzò la mostra New York, a New World Trade Center: Design Proposals, in cui vennero presentate le 60 proposte pervenute.
Piccardo e Canziani affermarono che si doveva partire dal violento crollo del viadotto sul torrente Polcevera, descritto da loro come “Il sottile nastro di cemento che attraversava la valle verde, paradigma della Genova moderna post-bellica”, per rigenerare il futuro di una città fragile e tendente a infragilirsi sempre più, oltre che per l’assenza di infrastrutture adeguate, per quella di una visione prospettica in divenire. Piccardo e Canziani ci proposero di organizzare insieme una mostra. Fu invece Joseph Grima a suggerire l’open call. Dopo una serie di confronti con Piccardo e Canziani, decidemmo di invitare Yona Friedman e Peter Fend, accomunati, nelle differenze, dal loro essere “programmaticamente utopici”, e anche dalla generosità che li contraddistingue, intesa come attitudine anti-monumentale, avida di vita, di movimento e di freschissima insoddisfazione positiva.
Yona Friedman ha influenzato due generazioni di architetti agendo attraverso disegni, collages, modelli, idee, teorie, libri e film. Nel suo testo Biosphere is still common property except for land use scrive: “Il concetto di proprietà terriera è cominciato concentrandosi sull’area calpestabile a due dimensioni e si è sviluppato dopo sull’interpretazione a tre dimensioni. La proprietà terriera è stata estesa ‘raggiungendo il cielo’, includendo anche le acque, come ‘acque territoriali’. La biosfera è diventata una proprietà privata. Fortunatamente, la proprietà non è stata estesa all’atmosfera, all’aria, alla pioggia, alla luce solare. La mia proposta di ‘infrastrutture a nuvola’ è basata essenzialmente su quelle nuove tecnologie che sono indipendenti dall’uso diretto della terra, come pannelli solari, batterie compatte, contenitori per la pioggia, cloud di informazioni. Le informazioni in cloud sono di tutti.”
Peter Fend, senza mai celare un profondo senso di frustrazione trasmutato in elemento fondativo della sua opera, ha affidato la sua visione alle azioni di ri-mappatura del mondo reale, muovendo dalla rappresentazione geografica e dalla lettura lucida e senza pregiudizi della Storia atta a centrifugare la segmentazione lineare della causa e dell’effetto, dentro a una prospettiva in cui la relazione di idee manifesta l’a-priori e l’a-posteriori in forma circolare. Il suo libro Ocean Earth è emblematico in questo senso. Al di là del Mega-Strutturalismo e del linguaggio dell’assemblaggio modulare, che Fend ci ha confessato di percepire come una montagna da scalare, al ritorno dal suo primo incontro a Parigi con Yona Friedman, nello studio dell’architetto, lo scorso novembre, avvenuto indipendentemente da noi e senza che noi ne fossimo a conoscenza, per una curiosa coincidenza di cui diremo dopo, Fend ci ha raccontato che Friedman è la prima persona che ha incontrato nel mondo dell’architettura, che conoscesse in modo approfondito la fisiocrazia, una dottrina economica formulata dal fisico François Quesnay nel Settecento, affermando: “Riguardo a ciò, noi due potremmo essere unici nella comunità dell’architettura, e anche nel mondo dell’arte” e ancora “La fisiocrazia è stata inventata dal fisico per il re francese. È arrivato alla conclusione che il benessere della nazione, del popolo, dipendeva dalle fondamenta del benessere della Natura. Gli animali e le piante dovevano essere in salute. La parola ‘ecologia’ non era utilizzata allora, nei primi anni del XVIII secolo. Ma il fisico ha capito l’obbligo dello Stato, oppure del re, di assicurare l’incolumità alla popolazione. Questo significa che il terreno e l’acqua devono essere sicuri. Infatti: le persone vanno e vengono; come sta succedendo, invece, alla terra e all’acqua? Nessuna tirannia è peggio che vivere in un luogo inquinato e malsano. Non c’è scampo”.
Il viaggio di Peter Fend a Parigi per incontrare Yona Friedman è stato organizzato dal museo Nivola, a cui Lennart Wolff e Elisa R. Linn avevano proposto un progetto di collaborazione tra Friedman e Fend fin dal 2017; la mostra sarà aperta nell’ottobre del 2019.
Apprendemmo del progetto da una e-mail di Lennart Wolff in dicembre.
Sia Peter Fend che Yona Friedman, entrambi “trascendentemente” al di sopra di questo apparente conflitto di interessi, non avevano mai fatto cenno al progetto insieme in Sardegna.
Quando chiedemmo a Peter Fend rispose, prendendoci un po’ giro:
“Devo ammettere, mi dispiace,
che sono in difetto, dal profondo del mio corpo,
con ogni fibra delle mie braccia e delle mie gambe,
che ho pensato a ciò a cui
tutti gli architetti hanno pensato,
all’ambizione, dopo il fatto di agosto, di ANDARE A GENOVA
a portare idee sul Construttivismo russo,
Gordon Matta-Clark, Robert Le Ricolais, Yona Friedman,
o ad altri genuini pionieri del pensiero strutturale ed infrastrutturale”.
Il film-documentario curato da Elisa R. Linn e Lennart Wolff e co-prodotto dal museo Nivola e Pinksummer, nasce insomma da una coincidenza sintropica, trasformata in opportunità, muovendo dal materiale raccolto da Wolff durante l’incontro a Parigi tra Yona Friedman e Peter Fend.
L’open call, la cui dead-line sarà il 15 marzo e di cui sotto presentiamo l’intento, lavora invece sull’ermeneutica dell’assenza, da ogni punto di vista la si voglia considerare. In un’Italia che dibatte incerta come se la sicurezza di un’identità eventuale fosse assoggettata alla chiusura o all’apertura dei porti, in barba al fatto che un porto, in sé, indica l’approdo in sicurezza, qui a Genova ciò che è accaduto dopo “Il crollo del ponte” più che a rimandare alla cordata Traiano/Apollodoro di Damasco, che insieme costruirono nel 105 d.C. un ponte lungo 1,1 km, quanto il viadotto autostradale sul Polcevera progettato da Riccardo Morandi a opera della Società Italiana per le Condotte d’Acqua e ultimato nel 1967, richiama il neo-feudalesimo contemporaneo, allergico all’idea stessa di partecipazione, che, giustificato dall’eccezionalità (stato di eccezione), si è trovato a ignorare le regole costituzionali della competizione, come premessa compiutamente democratica alla ricostruzione.
Pinksummer: La democrazia è il governo del popolo tramite rappresentanti liberamente eletti dai cittadini che hanno diritto di voto. Lei ha affermato che a esprimere il parlamento, in un governo compiutamente democratico, non dovrebbe essere la maggioranza dei votanti, ma di tutti coloro iscritti al voto e che dunque, anche agli astensionisti, dovrebbe corrispondere una percentuale di eletti. Lenin intendeva l’astensione come una forma tattica e strategica rispetto alla coerenza con gli ideali rivoluzionari, per lei l’astensionismo è una forma di resistenza?
Yona Friedman: L’astensionismo è un partito. Può essere rappresentato da delegati scelti casualmente, come i giurati dalla corte d’assise.
Ps: La rete, internet, in qualsiasi forma, è sempre la teatralizzazione di contenuti già noti rispetto all’informazione?
Y.F.: Spesso internet diffonde informazioni false. Come tutti i media. Sarebbe meglio e più facile combatterli attraverso la rete, ma difficilmente è attuabile in maniera altrettanto efficiente.
Ps: Cosa intende quando afferma che le migrazioni oltre a essere una difesa dell’individuo contro l’iniquità sono strumenti di autoregolamentazione sociale? Le migrazioni rappresentano una minaccia per lo stato democratico o solo per lo stato mafia?
Y.F: La migrazione equivale a esprimere dissenso. Io stesso sono emigrato tre volte, lasciandomi alle spalle situazioni politiche che non mi piacevano.
Ps: Una volta hai detto che ti piacerebbe guidare l’Italia a costruire ferrovie nel deserto del Sahara, non diversamente da quello che sta facendo la Cina; in linea con una citazione di Matta-Clark che ha detto (o scritto): “L’unica cosa in cui credo sono le ferrovie”. L’idea è quella di sostituire la politica degli aiuti umanitari con investimenti che rimandano a una vera e propria cooperazione. Negli ultimi 10 anni la Cina ha costruito in Africa 2233 km di ferrovie e altri sono in corso d’opera. Il presidente Xi Jimping, durante il China-Africa Cooperation Forum, ha varato un nuovo piano industriale per l’agricoltura e le energie pulite. Di fatto però si tratta di petrolio in cambio di strade e ferrovie e gli aiuti umanitari cinesi all’Africa sembrano solo dichiarati. Non si tratta di purissimo neocolonialismo o meglio nel caso dell’Impero celeste di neoimperialismo? Parlaci dell’Eurafrica che hai in mente.
Peter Fend: Genova è il porto di Milano-Torino-Parma-Genova, anzi, di più rispetto a Rotterdam che è il porto di Amsterdam-Utrecht-L’Aia-Rotterdam.
Le eccezioni sono i due aeroporti internazionale in Svizzera, che è più una banca che un paese,
e i centri globali del Quatar, Dubai e Istanbul, possibili grazie alla loro posizione centrale nel mondo dei viaggi e del petrolio.
Ancora più importante, Genova può diventare il porto principale dell’Europa con l’Africa—più grande di Marsiglia.
Questo necessita di due reti ferroviarie
Attraverso il Sahara fino all’Africa sub-sahariana.
L’Italia ha iniziato una ferrovia trans-Sahara diverse volte, la prima nel 1871, la Cina ha costruito reti ferroviarie di quelle dimensioni, attraverso deserti più grandi, in questi anni. L’Italia può competere?
Ps: Muovendo dal Viadotto sul Polcevera, la tua idea di ricostruzione rimanda alla large scale, per large scale intendi sempre un sistema infrastrutturale strategico, senza mai dimenticare l’ambiente. Hai studiato Genova e il suo territorio. Genova è essenzialmente un porto, i porti hanno bisogno di strade, di ferrovie efficienti. Perché gli amministratori locali e il governo centrale hanno lasciato che il porto di Genova venisse “insabbiato” e la città isolata grazie a reti autostradali e ferroviarie inadeguate per viaggiare in moto sincrono con un tempo accelerato? Fin dagli anni ’80 gli ambientalisti e i residenti delle zone a nord di Genova, interessati dalla cosiddetta “Gronda”, si sono opposti ricorrendo al Tar. Come è possibile coniugare le esigenze dell’ambiente con quello di dare respiro a nord a un porto e a una città, in un territorio orogeneticamente difficile?
P.F.: Uccelli che volano dalla giungla in Africa alla tundra nell’Artico, e ritorno, passando dall’Europa. Questi uccelli appartengono essenzialmente all’ecosistema dell’emisfero boreale. Distribuiscono nutrienti e semi in queste longitudini. Ma questi voli stanno diminuendo. Le ragioni sono diverse. Quasi tutte sono causa dell’uomo. Perché, ad esempio, gli insetti sono diminuiti del 75% negli ultimi 25 anni? Senza un grande numero di insetti, non possono esserci abbastanza uccelli.
La Cina ha adottato una massiccia campagna per la costruzione di infrastrutture, e nell’organizzazione della popolazione, per un percorso che passa in gran parte dall’estremo ovest all’estremo est, attraverso l’intera Eurasia. Questa campagna si è estesa in tutto il mondo, dall’Africa all’America latina. Cosa risponde l’Italia?
L’Italia potrebbe organizzare una campagna analoga per scala e concettualmente simile, ma lungo il percorso dall’Africa sub-sahariana al Sahara, al nord Europa e l’Artico, e viceversa. L’Italia può farlo con altri paesi in Africa e in Europa.
Imitando il volo degli uccelli, l’Italia può dirigere la costruzione di binari attraverso il Sahara. Ha cominciato questo lavoro nel 1871, fare squadra con l’Africa e l’Europa per continuare. Le distanze nel deserto sono minori rispetto a quelle raggiunte negli ultimi anni dalla Cina.
Attraverso questi percorsi, l’Italia può fare da pioniera nella costruzione di paludi, oasi, alimentando il terreno per gli animali, e rigenerando laghi salati. Può fare ciò non solo con l’Africa ma anche con l’estremo nord dell’Europa. L’Artico si sta sciogliendo; gli ecosistemi fioriscono di vita, specialmente in estate; perché non lavorare lungo i litorali dell’Artico, tutto intorno? Perché non seguire l’esempio di Umberto Nobile, il duca italiano, pioniere negli anni ’20, cento anni fa: il primo a attraversare l’Oceano Artico con un pallone. L’ha fatto solo per gioco? No, l’ha fatto perché sapeva che l’Italia avrebbe dovuto attivarsi nell’Artico. Questo può avvenire ora.
Tutte le acque costiere dell’Artico sono in mostra questa settimana a Kirkenes, al confine tra la Norvegia e la Russia. Un film-maker e io intendiamo andare in quelle stesse acque l’estate prossima, per sfidare l’industria petrolifera in questo scenario di trivellazioni e cercare, in questi siti, se le alghe possono essere raccolte per sostituire le emissioni con il biocarburante. Questa ricerca può essere proseguita da ENI. Può essere iniziata anche adesso da Eni che potrebbe tenere sotto controllo il flusso dall’Artico, la corrente del Labrador.
Molte azioni sono state mappate e pianificate per le coste dell’Africa, e anche per l’interno. Dovrebbero cominciare durante l’inverno. Possono essere mappati degli schemi e lanciati dall’Italia.
L’urgenza di azione nell’Artico è chiara: le alghe proliferano durante l’estate, a causa dello scioglimento della tundra e per l’aumento netto della temperatura; le alghe aiutano a riversare acido nel mare; nel frattempo, compagnie petrolifere di grandi poteri (Russia, Cina, Stati Uniti, Inghilterra, ma non in modo significativo, Francia) lavorano per trivellare alla ricerca di petrolio e gas, a grandi costi e rischi, con seri danni all’Artico come a qualsiasi cosa viva.
L’urgenza di azione in Africa è altrettanto chiara: il continente avrà 2 miliardi di persone nel 2050, non tenendo conto di guerre catastrofiche, ma è comunque in dubbio, dato che l’Africa non ha abbastanza acqua. Potrebbe esserci carestia. Potrebbe esserci più siccità. Potrebbe esserci un grande aumento della mortalità. Potrebbe esserci più violenza e terrore. Cosa si può fare? E’ urgente costruire un’attività economica di cui potrebbe beneficiare l’ecologia, ripristinando il circolo dell’acqua. Tale azione dovrebbe essere guidata da paesi come l’Italia. Altrimenti, solo la Cina avrà in mano tutto. La Cina è inoltre già sulla strada per il dominio dell’Africa. Ciò non va bene per l’Italia, o l’Europa, o anche per l’Africa. L’Italia deve entrare nel mondo africano allo stesso modo in cui sta facendo la Cina oggi. Centinaia di milioni di ipotetici rifugiati devono inondare l’Europa? E dovrebbe l’Africa rimanere un continente praticamente deserto? Con deboli rotte migratorie, che portano sempre meno benefici al paese, come l’Italia, a nord?
Genova può essere decisiva.
Genova, insieme a Sarzana, Savona e potenziando la rete ferroviaria a nord, Ovada, o Tortona, può affermare che coordinerà la regione con uno dei più grandi PORTI di scambi tra l’Europa e l’Africa.
Potrebbe chiamarsi PORTA AFRICA.
Genova può fare tutto ciò in concorrenza con la Cina, e sulla stessa scala globale di infrastrutture pensando a ciò che fa la Cina.
Genova può anche rivolgersi a Mercitalia, il trasporto merci delle Ferrovie dello Stato, per costruire binari dall’Europa del nord all’Artico, in collaborazione con la Norvegia e la Finlandia, e può dialogare con Mercitalia sulla costruzione di entrambi gli ecosistemi e linee di trasporto merci attraverso l’Africa.
Il coordinamento può essere gestito dal Giappone: sia l’Italia che il Giappone sono unici al mondo per la costruzione di binari lungo le coste; entrambi i paesi sono in grado di costruire economia mare-terra.
La pressione dalla Cina, con quella della Turchia sempre in espansione, dev’essere pareggiata su una scala similare. Altrimenti, l’Italia diventa economicamente debole, con Genova come prima vittima.
Rispondendo alla pressione, insieme al governo a Roma, può ripristinare Genova come primo porto industriale d’Europa, tra la Francia e la Russia.
Fare ciò non è difficile: Genova deve ricordarsi di Torino, Milano e il corridoio agro-urbano da Piacenza a Bologna, e il loro porto è quasi sempre Genova.
Ciò che succede nella Val Polcevera è solo una piccola parte di ciò che succede nell’intero sistema ecologico dell’Eurafrica.
VOLO VIA GIUNGLA VERSO TUNDRA
Ps: Il Viadotto sul Polcevera, crollato lo scosso 14 agosto, fu costruito da Riccardo Morandi tra il 1963 e il 1967, nel periodo del miracolo economico del secondo dopoguerra simbolo di una modernità dirigistica, che non guardava in faccia a nessuno e che sicuramente non ha guardato in faccia coloro che già abitavano e hanno continuato a abitare le case di via Walter Fillak fino al crollo del nastro di cemento strallato. Per citare Robert Smithson il ponte Morandi non è stato sempre una rovina al contrario?
Andrea Canziani e Emanuele Piccardo: Smithson nel suo A Tour of Monument of Passaic in New Jersey avvenuto proprio in quello stesso 1967, cammina lungo il fiume e racconta con le fotografie una serie di “rovine” che sono pipeline, moli, ponti pedonali, aree gioco per bambini. Smithson lavora sul concetto di rovina invertendo l’idea classica di monumento, infatti si chiede se Passaic possa essere una città eterna come Roma, senza che debba derivare da alcuna volontà monumentale. “Il caso volle che fossero proprio le fotografie di un viadotto dell’Autostrada A12 nei pressi di Rapallo le immagini che usai nel progetto del filosofo Matthieu Duperrex che nel 2017 chiese a una serie di ricercatori, di rendere omaggio al tour di Smithson a distanza di cinquant’anni” (EP). Il Viadotto sul Polcevera è questo: un monumento al contrario, avrebbe potuto essere una rovina solo se ci avesse permesso di percepire l’esistenza di un tempo che non è quello del solo trascorrere degli anni. Ma tutto questo è stato negato dalla volontà della rimozione. Rimozione dell’evento ancor prima della rimozione di ciò che non ha tempo per essere altro che macerie. Sarebbe sbagliato leggere quel progetto e le scelte da cui deriva con la sensibilità, anche ambientale, che abbiamo oggi.
La modernità del secondo dopoguerra non aveva connotazioni antidemocratiche, certo aveva connotazioni capitalistiche e tecnocratiche. Ma attenzione era ancora (per poco) una tecnocrazia alla William Henry Smith: al servizio della democrazia industriale, con un fine etico e morale di ben altro spessore rispetto alla successiva deriva capitalistica.
Il progetto di Morandi non ha nulla di dirigista, non cambia la città su cui si innesta, non chiede nulla, offre una risposta alla funzione di collegare due autostrade. E lo fa in quel momento così bene che immediatamente viene riconosciuto come un esempio formale di grande interesse, perfino paesaggistico, negli ambienti ingegneristici dell’epoca. Occorre contestualizzare il progetto di Morandi con il boom economico e la voglia di rinascere dell’Italia, l’utopia modernista e la necessità di avere collegamenti efficaci, sono gli stessi anni della costruzione della Sopraelevata (1964).
Allo stesso modo occorre contestualizzare l’operazione che stiamo facendo con questa mostra che non è affatto la proposta di progetti alternativi, bensì di visioni alternative.
Ps: L’evoluzione della democrazia, anche in architettura, ha veramente eroso le gerarchie? La post-modernità è davvero più mobile e fluttuante o è solo escrescenza discorsiva. La res publica non è stata devitalizzata dalla fine dell’homo politicus della modernità e dall’avvento dell’homo psycologicus vulnerabile e incerto, in cerca del proprio benessere dentro a una post-modernità equivocamente emotiva?
A.C. e E.P.: L’architettura ha una dimensione sociale ed etica, in quanto il progetto rappresenta sempre la possibilità di vivere in condizioni migliori. Questo è l’ideale a cui tendono alcuni architetti, non tutti. Alcuni si limitano a dare risposte tranquillizzanti ad abitanti che di norma diffidano dell’architettura e della contemporaneità.
La debolezza politica e la crisi dei meccanismi di partecipazione democratica in atto è ben espressa dalla situazione del crollo del viadotto. Abbiamo assistito al decisionismo autoreferenziale dell’ennesimo commissario per l’ennesima emergenza. Lo stato di eccezione giustifica tutto e la propaganda politica tranquillizza, ipnotizza, anestetizza, attraverso una offerta di delega totale alla politica di governo: tutto tornerà normale, tranquilli. Ma a quali e quante libertà siamo disposti a rinunciare per avere la rassicurante prevedibilità di un agire quotidiano?
Non è stata la postmodernità -ammesso che sia mai esistita-, né l’iper-modernità che viviamo che impongono quanto accade. Forse un indizio potrebbe trovarsi nella autoreferenzialità e e nel protagonismo egoista dell’homo psycologicus, ma sembra più ragionevole pensare che l’arroganza e l’ignoranza diffusa contribuiscano a definire la società contemporanea come una società dello spettacolo di debordiana memoria.
Ecco allora l’importanza di attivare meccanismi come quelli che hanno generato questa esposizione e l’open call associata al lavoro di Yona Friedman e Peter Fend. Perché l’agenda politica potrà anche essere dettata dalle emozioni e non dalla razionalità, ma che l’architettura non ne diventi mai l’ancella muta.
Ps: State lavorando a una mostra di Peter Fend e Yona Friedman al museo Nivola fin dal 2017, la mostra aprirà in ottobre. Senza sapere gli uni degli altri abbiamo accomunato per finalità diverse, la nostra più specifica, convogliata se vogliamo all’eccezionalità di un accadimento, la vostra invece si potrebbe definire, forse impropriamente a lungo termine. Cosa vi ha spinto a unire in una mostra l’artista large/small scale Peter Fend, all’architetto della ville spatiale, delle clouds infrastructures e delle utopie realizzabili?
Lennart Wolff e Elisa R. Linn: Il punto iniziale che ci ha spinto a unire Peter Fend e Yona Friedman era una somiglianza che abbiamo visto nelle loro posizioni in relazione alla storia e al discorso delle discipline di arte e architettura. Entrambi hanno mantenuto in qualche modo una posizione periferica e critica muovendo oltre le comuni elaborazioni, piattaforme e istituzioni: ad esempio, un museo e un mercato concentrato sulla produzione artistica negli anni ’80 o l’integrazione degli ideali modernisti delle culture corporative e delle industrie di edifici convenzionali negli anni ’50. Così facendo introducono nuove idee e possibili forme organizzative che vivevano in collaborazione ed eccedevano i limiti delle loro discipline che si sono dimostrate altamente influenti, non solo sulle generazioni contemporanee ma anche per quelle future. Inoltre, alla luce dell’evolversi sempre più accelerato della crisi climatica, eravamo interessati a riportare l’attenzione sul lavoro dei due professionisti, che hanno un ruolo pionieristico nel trovare diverse strade per considerare i problemi ambientali nell’arte e nell’architettura.