Stefania Galegati – I modi di dire e della buca con opere di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga (eteronomo di Bianca Menna), Betty Danon, Agnes Denes, Amelia Etlinger, Maria Lai, Margaret Morton, Giustina Prestento, Greta Schodl, Salette Tavares dalla collezione di Gianni Garrera

Pinksummer: Partiamo subito dal titolo dell’installazione ambientale che vuoi realizzare per il finissage, forse nel laghetto “fake” di Galeazzo Alessi a Villa Doria, un’opera di ingegneria idraulica del Cinquecento che diventerà la cornice del tuo “Buco nell’Acqua”.
“Fare un buco nell’acqua” è un modo di dire italiano che indica un tentativo inutile, un insuccesso, un fallimento. Esiste una fiaba di Luigi Capuana dal titolo “Un Buco nell’Acqua”, la cui morale è che spesso abbiamo il torto di credere impossibile una cosa che pur avendone l’apparenza, non è tale.
Crediamo, rispetto al fallimento, che sia necessario distinguere tra la reiterazione dell’errore o il procedere nella vita rischiando errori nuovi di zecca. Pensiamo che Beckett quando affermava che è necessario provarci ancora e fallire meglio, intendesse che si dovrebbe provare a fare errori nuovi, non quelli che abbiamo sempre fatto.
Cioran rispetto al fallimento parla di allusione all’indicibile in cui è racchiuso il segreto della propria anima con il suo originale essere nel mondo e aggiunge, che gli appassionati della caduta e delle periferie si trovano un po’ ovunque. E ancora che lo scacco porta alla trasfigurazione e che è correlato all’ispirazione poetica, vale a dire che se il perdente si manterrà all’altezza del proprio fallimento, sfruttandone le potenzialità metafisiche sarà illuminato, perché ciò che conta non è produrre, ma comprendere e Bas Jan Ader pare aver compreso, destreggiandosi magistralmente con questa ideologia del fallimento, trasformando se stesso in una “vittima invincibile”.
In quanto a potenzialità metafisiche “Il buco nell’acqua” ne ha parecchie e, in questo senso rientra perfettamente nella tua indagine estetica tesa talvolta a enfatizzare, altre a immaginare una realtà sempre in procinto di valicare un confine che rimanda alla nudità ontologica del reale. Sei contro l’etica mistificante della vittoria, chi è il raté, il fallito?
Stefania Galegati: Direi di si, sono contro l’etica della vittoria perché sono contro le nazioni, i confini, le punizioni, le cose amministrate per delega e altro.
Nel calcio-balilla invece sono per la vittoria perché è una condizione temporanea di godimento e dà adito alla rivincita.
Chi è il fallito?!
Non riesco a definire il fallito, perché il fallito nasce nel momento in cui qualcuno lo giudica tale. Se uno ha un’azienda che non funziona, o lascia la vita borghese per vivere in strada o gli vanno tutte storte, allora si dice: quello è un fallito… ma non è detto e soprattutto non è interessante.
Il fallimento che ha un valore imprescindibile è la condizione mentale di consapevolezza della condizione umana. La capacità di tenerla a mente.
Ricordarsi ogni tanto di cadere come faceva Bas Jan Ader o anche Buster Keaton è un tenersi aggiornati sulla propria condizione di precarietà.
Il dramma viene guardato e reso positivo.
Questa tipologia di fallimento è legata spesso all’ironia, all’accettazione consapevole della nostra precarietà. L’idea del buco nell’acqua (che a dire il vero ebbi una quindicina di anni fa) è così un esercizio mentale. Ci fa sorridere, sembra un modo di dire, ma poi ha una sua presenza fisica. Presenza che viene immediatamente negata perché è un buco, un buco impossibile, doppiamente buco.
PS: Parlaci del titolo della mostra, da dove viene “I modi di dire e della Buca”
SG: Il riferimento al modo di dire è chiaro e fa fare un clic.
La buca si riferisce alla mostra in galleria e alla simbologia femminile del buco.
“Il sociale e della cacciagione” era un ristorante romagnolo; mi è sempre piaciuta questa forma di linguaggio che dice qualcosa e poi apre ad altro.
PS: I buchi di fatto sono irriducibili e totalizzanti e in qualche modo potrebbero essere intesi come difetti della rappresentazione. Il buco è niente da vedere, come il sesso femminile, che già nella statuaria greca veniva escluso, rigettato dalla scena della rappresentazione. Il buco è di fatto assenza. A proposito di sesso e di linguaggio, la sessualità femminile è sempre stata pensata in base a parametri maschili. Il desiderio della donna, non parla il medesimo linguaggio dell’uomo, sfugge la logica maschile dello sguardo e della discriminazione della forma. Le donne amano più toccare che guardare.
Seppure i buchi abbiano proprietà spaziali, esistono? Di che cosa sono fatti? In che relazione stanno ad esempio con il groviera o con la poesia visiva e “La Materializzazione del Linguaggio” per iniziare a introdurre con il titolo della mostra curata da Mirella Bentivoglio alla Biennale di Venezia nel ’78, questa strana personale che includerà opere per l’appunto di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga (eteronimo di Bianca Menna), Betty Danon, Agnes Denes, Amelia Etlinger, Maria Lai, Margaret Morton, Giustina Prestento, Greta Schodl, Salette Tavares.
S.G: I buchi esistono e sono fatti di aria, di solito, che è invisibile. (a parte i buchi neri che sono pienissimi).
E poi sono definiti dalla materia che gli sta intorno.
Qualche mese fa mi avete proposto di curare o allestire una mostra di artiste donne degli anni 60-70-80 dalla collezione di Gianni Garrera. E’ stato un dono bellissimo che mi ha portato a ripensare alla mia educazione e al contesto in cui mi trovo. Conoscevo il lavoro di Maria Lai e avevo sentito nominare alcune delle altre artiste. Della mostra curata dalla Bentivoglio non sapevo niente. Possibile? C’è stato uno sforzo di cancellazione e di esclusione dalla rappresentazione. Per tutta l’estate ogni due tre giorni Gianni mi mandava un’opera.
Nel frattempo sotto l’ombrellone leggevo Vai pure, il dialogo fra Carla Lonzi e Pietro Consagra che mi ha aiutato a contestualizzare il buco in cui tutte queste artiste agivano. L’artista era sottinteso uomo, era individualista, quasi sacerdote e il linguaggio quello del pene.
Le artiste donne di quegli anni hanno lavorato in una sorta di mondo parallelo, venivano lasciate lavorare ma come se fosse un contentino.
Mi sono resa conto improvvisamente delle carenze di linguaggio che ho vissuto a livello pedagogico e artistico. Aprire gli imballaggi di questa collezione è stato come trovare un linguaggio familiare e le pratiche, le pratiche che mi mancavano.Che intuizione Gianni acquisire queste opere! Come è stato il tuo approccio come collezionista?
Gianni Garrera: Cominciare a collezionare significò dapprima cercare un’alternativa. Rispetto al clima delle mie giornate di studio, trovavo così dei momenti di distrazione assoluta. Stavo lavorando ad alcune traduzioni di Kierkegaard e ogni volta che staccavo da questo lavoro, andavo a trovare Mirella Bentivoglio. I giorni feriali lavoravo alla filosofia e i giorni festivi mi recavo a casa sua, a vedere i suoi lavori, ad ascoltare i suoi racconti, a capire la sua visione delle cose, a conoscere le sue amicizie e riconoscere le sue compagne di avventura. Da ogni visita ritornavo con un lavoro, o di Mirella o di una sua amica, ogni domenica un’opera, per portare qualcosa con me, per avere un feticcio o un idoletto. Di solito erano lavori di poesia visiva o libri-oggetto, pertanto è come se semplicemente adornassi con prodotti di manifattura femminile l’aridità della mia stanza. Mirella l’avevo conosciuta perché aveva bisogno di una consulenza a proposito di Simone Weil, filosofa e mistica straordinaria, e mi aveva chiesto di darle delle ‘lezioni’. Ogni domenica, per un anno, ci si incontrava e le parlavo di Simone Weil, poi, nella seconda parte dell’incontro, era Mirella a contraccambiare la ‘lezione’, spiegandomi i suoi lavori, la sua vita, la sua concezione dell’arte. Tra me che le parlavo di Simone Weil e lei che mi narrava di se stessa, trascorrevo fondamentalmente tutte le domeniche al femminile. Mirella usava dirmi che in tal modo non era più per noi il giorno del Signore, ma della Signora (così aveva soprannominato la Weil). Pertanto lei ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione di collezionista, indirizzando molte delle mie scelte.
S.G. Quando fece quella mostra nel ‘78 eravate già amici? Perché l’amaro che mi resta in bocca è ancora legato all’oscuramento che è stato fatto in quegli anni. Le donne che sono state supportate o lasciate fare dal sistema si comportavano come uomini, linguisticamente dico. Pure io, quando sono ‘uscita’, senza capirmi, ho fatto l’uomo per tanti anni.
Quale è secondo voi la specificità del femminile? I materiali come fili, ricami, tessiture, ceramica, scrittura, un certo modo effimero di usare il video… ritornano spesso ma teorizzati così mi sembra di nuovo di relegare la donna al fare artigianale, mentre sento affinità di pensiero poi profonde…
GG: Sì, sovente si indentifica il lavoro artistico femminile con quei materiali, come se l’attività artistica femminile fosse un’appendice domestica, una deviazione delle attività domestiche, come il cucito o la lista della spesa. Il principio non mi dispiace, perché in realtà non si relega la donna nel suo ambito, ma si individua un’aberrazione della tradizione, un’eresia estetica, per cui quei mezzi innocui, della vita domestica femminile, sono impiegati in maniera impropria, non ortodossa (per cucire libri, per ricamare pagine concettuali).Se ripenso poi ai dialoghi o ai lavori di Mirella Bentivoglio o di Maria Lai, questi mezzi consentono all’artista una speculazione davvero eccezionale, nel senso che alcuni lavori di teologia visiva di Mirella Bentivoglio (come “L’assente”) hanno una piega anti-dogmatica evidente rispetto alla teologia costituita. Come accadeva per la Weil e per il suo recupero disorientante dell’eresia marcionita o catara, in Mirella Bentivoglio il lavoro, in apparenza più disarmato, serve a una revisione addirittura di dogmi, pertanto non si tratta nemmeno di un’operazione di sottomissione mariana. Il suo lavoro “L’Assente” avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, sostituire l’icona del crocifisso, pertanto era in funzione di una sostituzione di simboli. L’impiego della parola e le operazioni sulla parola delle donne sono sempre molto forti, perché riformulano i concetti, le sentenze tramandate, tramite mezzi inadeguati, anti-retorici, come avviene nelle cuciture di poesie o di paesaggi di Elisabetta Gut: interventi anche dolorosi di censura radicale e annichilante. La cancellatura femminile, attraverso la cucitura di parole o di immagini si pone agli antipodi della cancellatura maschile, perché gioca sull’equivoco del rammendo e della “bocca cucita”, e interviene con il filo e l’ago e non con il cassare o il barrare grafico.
PS: Mirella Bentivoglio, disse in un’intervista che il linguaggio è lo strumento del potere della Storia, della Legge che ha emarginato la donna nel pubblico silenzio. Ma che la donna vive il linguaggio come strumento di comunicazione al di fuori dei meccanismi alienanti.Cratilo un allievo di Eraclito di Efeso che radicalizzò il “panta rei” del suo maestro, affermava che nominare le cose è un’impossibilità e si limitava a indicarle con il dito.Il linguaggio verbale è un’architettura che cristalizza la realtà?La parola è uno strumento maschile?
GG: Non è la parola che è maschile, ma la grammatica, anzi, Nietzsche riteneva che non si compirà la morte di Dio finché si continuerà a credere alla grammatica. Ad esempio il senso di un lavoro di Mirella Bentivoglio, come SCUOLA, cioè una targa infranta, è un’allegoria della rottura dell’alleanza con la grammatica, cioè con la legge della lingua, analogamente alla rottura delle prime tavole mosaiche della legge. Ciò determina l’abolizione della parola come istituzione. Trasgredire un comandamento ortografico è infrangere tutta la legge della parola. In particolare nella poesia visiva femminile viene operata la rottura della scrittura lineare sillabica, i nuovi carismi della lingua procedono dal dissolvimento della sintassi e dell’ortografia. Intaccare l’ortografia è intaccare la parola e le leggi che regolano il discorso. La forma più radicale di lotta poetica è la lotta alla grammatica. Quando Maria Lai si mette a cucire un libro, aberra completamente i mezzi di scrittura e i parametri che regolano la scrittura, tramite un corsivo estremo che genera un dettato totalmente indecifrabile. La parola viene resa illeggibile per smentire il sistema del significato e impostare una grafia integralmente asemantica. Così queste donne si ritraggono dalle competenze alfabetiche del mondo.
SG: La parola è una cosa a sé, transgender. Non decidiamo di cambiare il linguaggio possiamo solo usarlo e lui si adatta al mondo e il mondo si adatta a lui. Poi è evidente che il potere dell’uomo sulla donna trapela anche nel linguaggio. Faccio sempre un esercizio per vedere se un po’ cambia: nella generalizzazione di un gruppo di persone per esempio, la faccio al femminile anche se c’è solo una donna presente. Fa strano anche a me che ho deciso di adottare questo esercizio.
PS: Con quale criterio, Stefania, hai scelto le opere dalla collezione di Gianni?
SG: A stomaco. E per affinità. La targa della SCUOLA della Bentivoglio per esempio è molto vicina a quello che resta de “Il Monumento al Cadere”.
PS: Parlaci del tuo “Il Monumento al Cadere”?
SG: “Il monumento al Cadere”, ancora presente su Google Maps è stato inaugurato a marzo 2017 a Palermo. Il progetto è una radice e un pezzo di tronco di un grande pino che è caduto con un temporale violento e la circonferenza di un paio di metri di radici che uscivano dalla terra mi ha emozionato. Ho chiamato una squadra di amici per riflettere sul da farsi e abbiamo deciso di prendercene cura. Lo abbiamo ripulito, trattato e gli abbiamo dato importanza. Abbiamo messo una targa in marmo e lo abbiamo inaugurato con tanto di taglio del nastro dell’Assessore alla Cultura, Andrea Cusumano. Qualche mese dopo i giardinieri del Comune lo hanno rimosso. Ho recuperato la targa tutta rotta che ci ricorda dell’attitudine al cadere.