Tobias Putrih – Internal Affairs

COMUNICATO STAMPA

 

1° ottobre 2021 – 15 gennaio 2022
Inaugurazione: 1° ottobre, 16:00 – 21:00

 

Tobias Putrih: Mi sono reso conto che sarebbe stato complicato trasportare le opere in cartone in Italia. Sono davvero troppo fragili senza una cornice… quindi ho deciso di farle incorniciare tutte qui. Ma in particolare vorrei rivedere un poco il progetto della mostra. Ho scavato negli archivi dei giornali sloveni degli anni Cinquanta e raccolto alcune immagini. Soprattutto immagini degli anni 1950-1953, quando alcuni politici in Jugoslavia decisero di rompere i rapporti con la Russia e costruire un proprio sistema ibrido tra socialismo ed economia di mercato, che chiamarono autogestione dei lavoratori. Posso scrivere qualcosa su questo. Il titolo della mostra ora è Internal Affairs. Ma devo pensare ancora bene. La mia opera fluorescente risalente alla fine degli anni Novanta sarà il pezzo centrale della mostra. Nell’ultimo mese ho anche realizzato alcune sculture di legno che la accompagneranno, alle quali sono attaccate delle fotografie (in realtà sono lastre da stampa offset). Le lastre verranno utilizzate per stampare un “libro d’artista” di poche pagine nel formato di un giornale. Le opere in cartone saranno in più, potremmo presentarle fuori mostra. Vi mando le immagini delle opere nei prossimi giorni così possiamo sceglierle insieme. Complessivamente sono nove.

Pinksummer: Hai visto Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia 1948-1980 al MoMA e Architecture. Sculpture. Remembrance. The Art of Monuments of Yugoslavia 1945-1991 alla Galleria Dessa a Lubiana? Non è forse Tito che decide nel 1948 di rompere i rapporti con la Russia facendo della Jugoslavia la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia leader delle nazioni non allineate? Questo tipo di socialismo jugoslavo ha fatto sì che l’architettura modernista della Jugoslavia diventasse speciale… quando scrivi di utopia, ti riferisci a questo linguaggio astratto peculiare? L’utopia è sempre un’isola? La Jugoslavia ha qualcosa dell’isola di Huxley tra la cultura orientale e occidentale, tra NATO e URSS.

TP: Sì, Tito e gli altri hanno dovuto bloccare i rapporti con i sovietici perché avevano paura di sottrarre tutta la terra ai partigiani che avevano combattuto durante la guerra, e senza la nazionalizzazione della terra il sistema sovietico non era praticabile. Quindi successivamente Kardelj e Kidrič hanno ideato il nuovo programma sociale e economico, in qualche modo sostenuto da ingenti finanziamenti americani. Intanto Tito stava preparando lo strudel alle mele con Sophia Loren.

PS: Il 3 ottobre del 2011 la Corte Costituzionale della Slovenia ha dichiarato incostituzionale la nuova dedica di una strada di Lubiana a Josip Broz Tito, in quanto poteva essere interpretato come un riconoscimento del precedente regime non democratico e in contrasto del rispetto e della dignità umana secondo la nuova costituzione slovena. Il precedente regime e il nome di Tito in qualche modo sono stati consegnati alla storia assieme ai monumenti e alle architetture del periodo precedente presenti in Slovenia. Si trattò della prima decisione di un organo giudiziario di uno stato democratico della ex Jugoslavia sull’opera di Tito. La Jugoslavia socialista rappresentò una sorta di prospera anomalia nella mappa del mondo, scegliendo di sottrarsi alla guerra fredda e indicando una via alternativa, in qualche modo ucronica oltre che utopica ai due blocchi di potere esistenti. Il punto di partenza delle utopie è individuare un male singolo o plurimo colpevole di un assetto sociale negativo contro cui si deve porre un’alternativa e si delinea una nuova identità. La storia della Repubblica Federale Socialista della Jugoslavia costruì la sua primeva prospettiva di felicità attorno alla lotta partigiana antifascista? Fu per questo che la Jugoslavia non fece mai parte del Patto di Varsavia come dei paesi NATO? Seppure la storia sia sempre molto più complessa è possibile che la Jugoslavia di Tito rimase per sempre un paese postbellico che continuò a individuare il male nei fascismi e il bene nella liberazione dai fascismi? Fu un errore non individuare un nuovo vero nemico?

TP: Parlando appunto della cosiddetta “terza via” della Jugoslavia è necessario mettere tutto in prospettiva. Per prima cosa, dopo la guerra Tito si rese conto che non poteva andare avanti con l’idea sovietica di nazionalizzazione della terra. La terra era tutto ciò che era rimasto per i ragazzi e le ragazze che si unirono ai partigiani e combatterono dalla sua parte. La riforma agraria del 1948 fu un bicchiere mezzo pieno, lasciò Stalin arrabbiato perché le direttive sovietiche non furono seguite. Ma, d’altra parte, all’interno delle nuove riforme la questione della proprietà della terra era relativamente minore, considerando che essendo costituita da infiniti piccoli lotti, l’agricoltura diventava semplicemente non praticabile. Quindi si sono dovuti inventare qualcosa di nuovo. E questo “qualcosa di nuovo” è stato un leggero ritorno all’economia di mercato. Si è trattato di un puro esperimento, immaginato dagli intellettuali di destra di Tito, Edvard Kardelj e Milovan Đjilas. Naturalmente gli americani erano deliziati di avere dalla loro parte qualcuno come Tito in grado di colpire Stalin dritto negli occhi, così hanno pompato soldi nell’economia jugoslava e messo Tito sulla copertina delle riviste Times e Life. E, naturalmente, Tito ha giocato da entrambe le parti. Poco dopo la morte di Stalin, Krusciov si rese conto che i sovietici non potevano lasciare scivolare la Jugoslavia nelle mani degli americani, e improvvisamente il paese fu inondato di prestiti americani e sovietici. Questa è stata l’eredità principale di Tito: costruire un paese tra due superpotenze e inventare un sistema economico e sociale intermedio. Avrebbe potuto ottenere ciò se la Jugoslavia non fosse stato un luogo frammentato: religioni, lingue diverse e un’enorme differenza del livello economico tra nord e sud. Ha funzionato fino al 1968 solo perché la maggioranza credeva nell’idea di un futuro migliore. Una contadina poteva improvvisamente andare a scuola e finire l’università. L’espansione economica fino alla metà degli anni Sessanta fu a dir poco sorprendente. Come lo scrittore bosniaco-americano Aleksandar Hemon ha descritto sua madre, lei credeva nell’idea della Jugoslavia, oltre il nazionalismo, oltre l’occidente corrotto e l’oriente autocratico. Sì, Tito fu un dittatore, ma è stato lui a vincere la guerra e a dire di no a Stalin, e inoltre era uno di loro, un fabbro di un piccolo paese al confine sloveno-croato. Le foto di lui che balla con Elizabeth Taylor e prepara lo strudel con Sophia Loren non hanno nuociuto. Era un dittatore affascinante che aveva un lato oscuro, ma alla gente non importava. Quindi la Jugoslavia era qualcosa in cui lei e molte, molte persone realmente credevano. Ma poi arrivò la disillusione del 1968, dove la vecchia guardia non capiva che per tenere a bada il nazionalismo, l’idea del progresso e del costante allineamento economico e sociale era cruciale per l’esistenza del paese. Forse avete ragione sul fatto che la vecchia guardia che ha visto il mondo dalla prospettiva della guerra non l’ha lasciato andare. E da lì in poi è andata in discesa. I genitori di Hemon emigrarono in Canada dopo che si era scatenato l’inferno e la Jugoslavia era andata a pezzi. Si unirono al figlio ribelle, che dopotutto si rese conto che i suoi genitori avevano qualcosa che lui non avrebbe mai avuto – credevano in un’idea che era molto più grande dell’individuo, una convinzione che stavano costruendo una società migliore. Non importa quanto questo possa sembrare fuorviante o ingenuo dal punto di vista di oggi, ma probabilmente era piuttosto speciale.

PS: Internal Affairs è il titolo che hai dato alla tua quarta personale da Pinksummer. Riferito alla “Druga Jugoslavia”, ci ha fatto immediatamente pensare al principio di indeterminazione di Heisemberg e al fatto che è impossibile conoscere i dettagli di un sistema senza perturbarlo. Certe coppie di grandezze fisiche complementari (immagine esterna e realtà interna) non sono misurabili contemporaneamente. In questa mostra hai privilegiato gli strumenti di misurazione per determinare la posizione e la carica elettrica interna alla ex Jugoslavia in quei primi metabolici e ibridissimi anni Cinquanta. Però l’outsider non può essere prodotto dalla struttura dell’utopia, così come lo straniero non è tollerato che per brevi periodi, il tempo necessario perché possa testimoniare nell’altrove le meraviglie dell’utopia a tendenza, nel caso della ex Jugoslavia, più costruttiva che escapista. Ogni prospettiva di felicità dell’utopia, comunque, non si arena sempre sul terreno difficile dell’inclusione sociale?

TP: Il caso jugoslavo è altamente idiosincratico. Nel 1951 alcuni ex partigiani ottennero il compito di attuare il nuovo sistema di autogestione, il prudente ritorno all’economia di mercato. Non c’era un progetto su come farlo, non sapevano cosa aspettarsi o dove li avrebbe portati l’intero esperimento. Per questo tipo di passaggio all’ignoto è necessario un certo consenso all’interno della società, un certo elemento di paura, persino repressione, ma anche una speranza, un’aspettativa di vita migliore e di un futuro più luminoso. Si potrebbe dire che è un’utopia nei termini usati da Édouard Glissant: utopia come un tremore, uno stato di flusso costante. Ma la domanda che questo progetto pone è forse più orientata verso la nostalgia, la nostalgia in senso produttivo di esplorazione dei sentieri e delle potenzialità alternative della modernità. Svetlana Boym ha descritto a lungo questo riuso “moderno” del passato, a volte tormentato ma poetico, e per nulla scontato. La metafora di Viktor Shklovsky’s per questo tipo di approccio era una mossa del cavaliere degli scacchi, dove la modernità non è mai uno stato di fatto, ma una costante ripetizione di scenari di “e se”. In questo senso un oggetto diventa un indicatore di uno stato conflittuale tra paura e speranza, una linea sottile tra vuoto e appagamento, ma soprattutto un sentimento di appartenenza, di essere parte di un’esperienza comune, di un futuro più luminoso. Quando ero ancora a Lubiana ero vicino ma mai veramente parte della comunità di artisti che occupava l’ex caserma dell’esercito a Metelkova nei primi anni Novanta, dopo la caduta della Jugoslavia. Quindi per il mio progetto “1:1” a Metelkova a Lubiana nel 1999 ho avuto la libertà di porre la medesima domanda che sto facendo ora: un oggetto potrebbe riflettere una tensione “e se”? Nel caso di Metelkova mi sono concentrato su un breve periodo di transizione sociale dei primi anni Novanta, un periodo di speranza e di energia che non era destinato a durare, e infatti in parte era già crollato al momento della mia mostra nel 1999. L’oggetto in mostra era, come dite, uno strumento di misura, un oggetto estraneo che non apparteneva a quel contesto. Faceva parte di un universo “e se” parallelo. Questa mostra è una continuazione dello stesso esperimento, una iterazione che guarda indietro, si focalizza sui primi anni Cinquanta, quando l’energia era simile, forse solo più amplificata, e in entrambi i casi si trattava di un momento di spaccatura che ha prodotto un enorme sforzo collettivo che è al centro del mio interesse. Quindi, se mi chiedete di cosa tratta questa mostra, la mia risposta potrebbe essere: è come ricostruire un momento di appartenenza. In quanto tale, è mascherato da una narrazione, in cui lo spettatore ha la possibilità di avvicinarsi e capire.

PS: Questa nuova società che credette in un futuro migliore e seppe uscire dalla sfera individuale coinvolse anche le donne: le partigiane si erano guadagnate la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia a colpi di fucile insieme agli uomini. La prima costituzione post-bellica della Jugoslavia del 1946 accordava piena cittadinanza alle donne, il diritto di voto, tutele speciali nel processo di educazione. Nel 1962 poco meno della metà dei laureati alla facoltà di architettura di Zagabria erano donne. Branka Tagik Novak progettò le prime cucine prefabbricate, Svetlana Kana Radević collaborò a Tokyo con il metabolista Kishō Kurowawa. Si credeva nella distribuzione egualitaria della ricchezza e l’attenzione per la condizione femminile era implicita. La condizione della Jugoslavia dopo la morte di Tito avvenuta nel 1980 fu, negli anni Ottanta, relativamente serena, negli anni Novanta coloro che intendevano dividere la società secondo criteri etnici e religiosi ebbero la meglio e furono perpetrati crimini efferati, come gli stupri di massa durante le guerre nei Balcani. Non credi che il capitalismo estremo in cui viviamo, in cui la ricchezza è in mano a pochi destinati a essere sempre meno non può che condurre a condizioni divisive, anche di genere, e a una visione tetra del futuro? Non credi che una distribuzione più egualitaria della ricchezza possa essere foriera di visioni più radiose del futuro, al di là di ogni senso di appartenenza a una specifica comunità?

TP: Il fatto è che la Jugoslavia si è sforzata di essere una società egualitaria, ma il problema e una delle cause della sua eventuale caduta è stato proprio il mancato raggiungimento di questo obiettivo. Analogamente all’Italia, il divario di reddito e produttività tra nord e sud era enorme negli anni Cinquanta, e in un paese etnicamente e religiosamente diviso, questo era un problema talmente difficile da risolvere che alla fine ha creato risentimenti da entrambe le parti. Quindi, da una parte si può dire che il sistema ha creato una classe media relativamente egualitaria, ma l’esistenza della classe media era un lavoro in corso, perché l’industrializzazione del paese era molto irregolare. Guardandola da una prospettiva più ampia, queste aperture, questi stati di “tremito”, sono il più delle volte innescati da un evento traumatico. In Jugoslavia sono stati la Seconda guerra mondiale e poi il crollo del paese nei primi anni Novanta. Non sono sicuro se tali punti di frenata che potrebbero bilanciare la società verso l’egualitarismo possano essere il risultato di una politica o di una volontà politica. Si tratta di una forza molto più cruda, dal basso verso l’alto, necessaria per un tale cambiamento sismico. Forse oggi, durante la spinta del globalismo verso l’uniformità, il compito di un produttore culturale è quello di coltivare uno stato disorientante di diversità, una catena infinita di scenari “e se”, di re-immaginare e ricostruire lo stato di trauma e speranza, di ricordarci che esistono diverse modalità di convivenza, e mantenerci sani.