Gruppo A12 – 12.11.1972
Il 12 novembre 1972 a Genova c’erano 85 sale cinematografiche: 4 cinema d’essai, 14 prime visioni, 7 prosecuzioni, 7 seconde visioni, 22 altre visioni, 31 delegazioni. Un numero consistente, se paragonato con le 49 sale concentrate in 24 cinema presenti a Genova oggi.
Lo scarto tra queste cifre è l’indicatore della profonda trasformazione avvenuta non solo nei modi e nelle forme dell’intrattenimento, ma anche nel tessuto urbano della città.
Cosa è accaduto a questi spazi? Cosa sono diventati? Da cosa sono stati sostituiti nella loro funzione di spettacolo e socializzazione? Alcuni esistono ancora, altri sono stati completamente trasformati, divenendo supermercati, banche, grandi magazzini, palestre ed altro ancora.
Il progetto “12.11.1972” parte da questo scarto e da queste interrogativi, costruendo un dispositivo narrativo che testimonia il processo di trasformazione del territorio urbano di Genova, e più in generale della città contemporanea.
Una sorta di macchina del tempo, dove la documentazione dello stato attuale e delle sostituzioni e cambiamenti fisici avvenuti negli edifici che ospitavano e ospitano tuttora le sale, si mescola con il richiamo alle storie che in quei luoghi, il 12 novembre 1972, erano messe in scena.
Intervista Con Il Gruppo A12
Pinksummer: “Perché vi siete chiamati come l’autostrada Genova-Livorno?”
Gruppo A12: “Il gruppo si è formato nel 1993, affittando un enorme ambiente all’interno di un antico palazzo di via Giustiniani, non troppo dissimile dallo spazio della galleria. Per un certo tempo siamo stati definiti come “quelli dello stanzone”, siccome di uno stanzone, in effetti, si trattava. Il nome gruppo A12 è nato nel 1995, un po’ per caso, in un’occasione specifica (una mostra su Ettore Sottsas all’Accademia Ligustica), per avere un’identità più riconoscibile rispetto a interlocutori istituzionali. Il significato era duplice: all’inizio eravamo dodici ed A era l’iniziale di architettura. Inoltre la A12 va verso est e ci piaceva ironizzare con il “Voyage en Orient” realizzato da Le Corbusier.”
P: Quando è nato il gruppo A12 nel 1993 era un momento in cui la res publica appariva super devitalizzata, l’individualismo era sovrano. Come avete scelto di essere un collettivo senza un capo che sviluppa in modo eclettico, ma sistematico e fenomenologico una riflessione sul sociale per eccellenza e talvolta suo malgrado: la città contemporanea?
G. A12:L’individualismo e l’autocompiacimento, almeno per quanto riguarda l’architettura italiana, avevano portato ad un vicolo cieco da cui ancora si fatica ad uscire oggi. Molti dei nostri docenti si riferivano ai loro come “maestri”, implicando una relazione verticale di trasmissione del sapere, se non del genio. Quella era una strada che si era già chiusa da sola, sia per quanto riguarda il modo di lavorare sia dal punto di vista dei contenuti della ricerca. Il gruppo è nato per un insieme probabilmente fortuito di ragioni. La base era un gruppo di persone particolarmente affiatate anche sul piano dell’amicizia personale, già abbastanza abituate a lavorare assieme per aver condiviso numerose esperienze universitarie ed unite dalla voglia di fare e di superare gli orizzonti ristretti che la facoltà di Genova offriva. C’era una vaghissima eredità dei movimenti di protesta universitari, che pochi anni prima si erano esauriti con la Pantera, più della natura collettiva che non delle varie ideologie. La cosa che soprattutto ricercavamo era una forma di dialogo orizzontale e di collaborazione che abolisse la nozione di autore, e che ci permettesse di articolare una attitudine eterogenea ed eclettica rispetto alla città. Sino a quel momento l’insegnamento universitario ci pareva una accumulazione di dogmi contrapposti ed inconciliabili. Ci pareva utile riferirsi alle pratiche intellettuali ed estetiche dell’architettura come ad una scatola di strumenti, tutti ugualmente utili. In quel periodo ci riferivamo spesso alla teoria del “bricoleur” di Claude Levi-Strauss. Lavorare assieme è sembrato uno sbocco abbastanza naturale, forse per pura fortuna la formula ha funzionato, sono stati vinti alcuni concorsi di architettura e questo ci ha dato l’entusiasmo per continuare.
P: A proposito del modo di intendere l’architettura di A12 e Stalker Hans Ulrich Obrist ha parlato di miracolo italiano appena incominciato. Di fatto, il vostro lavoro tende a svincolarsi da ogni intellettualismo utopico per recuperare una dimensione più funzionale dell’architettura. Cosa intendete quando affermate che l’architetto è un tecnico a disposizione della trasformazione della città?
G. A12:Dall’inizio degli anni ’60 il contributo dell’architettura italiana si è concentrato sulla costruzione di grandi teorie sulla città o sulla sua storia. Nello stesso periodo il territorio italiano è stato letteralmente massacrato e le condizioni professionali in cui gli architetti italiani operano si sono trasformate in un inferno. Gli architetti suppostamente colti, si sono ritratti dalla possibilità di agire direttamente sulla trasformazione della città e del territorio, rapidamente sostituiti da soggetti più spregiudicati ed efficaci. Altrove, dove gli architetti hanno continuato ad essere coinvolti attivamente nei processi concreti di trasformazione della città e del territorio, la situazione non è così tragica. Nei nostri lavori cerchiamo di non dimenticare mai che quello che disegniamo diventerà (o almeno così si spera) un pezzo della realtà materiale con cui le persone si devono confrontare quotidianamente. E’ da questo presupposto che tentiamo di sviluppare i nostri progetti, rinunciando almeno in prima istanza a velleità espressive (in questo il fatto di lavorare in gruppo è un meccanismo di compensazione eccellente).
P: Focault sosteneva che in una cultura e a un momento preciso, non esiste che una sola episteme che definisce le condizioni di possibilità di ogni sapere: sia quello che si manifesta in una teoria, sia quello che è investito in una pratica. La fusione di orizzonti a cui porta l’interruzione della fissità disciplinare che caratterizza il vostro fare è una forma di dialettica per recuperare la coscienza del nostro tempo?
G. A12: eeeeh…? cosa? Si’.
P: Ci raccontate cosa presenterete da Pinksummer?
G. A12: Una sorta di macchina del tempo. Proponiamo un dispositivo narrativo che permetta di ricostruire un processo di trasformazione del territorio urbano di Genova. In questo caso la città è scelta come un caso di studio, piuttosto universale. È Genova ma potrebbe essere qualsiasi altra città. Si tratta di una mappatura dei cinema esistenti in città trenta anni fa, e di un’investigazione su quello che sono diventati ora. Allo stesso tempo ci interessa manifestare cosa sia diventato il cinema, come forma di spettacolo, oggi.
P: Avete contestato la teoria dei non luoghi di Augé definendola nostalgica e un po’ snob. In verità questo ci è piaciuto, soprattutto per via dell’abuso. Il progetto “11.12.1972” pur manifestandosi come una mappatura, se vogliamo un po’ cinica o quantomeno descrittiva, dei luoghi che un tempo sono stati cinema di quartiere a Genova, molti dei quali oggi non esistono più sostituiti dalle accentratrici multisale, dalle banche, dai supermercati o dal nulla. Questo progetto non contiene, al di là della constatazione, qualcosa di nostalgico considerando che Genova è la città dove siete nati e cresciuti e magari anche una critica implicita alla progressiva spersonalizzazione e deterritorializzazione dell’intrattenimento?
G. A12: Il gioco della nostalgia sarebbe forse troppo tipicamente genovese, dato che la città permanentemente vive di una memoria di un passato generico, che spesso neppure conosce. Ci interessa manifestare un processo di mutazione dei modi d’uso, delle forme e delle strutture della città, processo che è globale. La scelta di Genova dipende più del fatto che la galleria Pinksummer sia a Genova e meno dal fatto che noi veniamo da qui. Si tratta di una articolazione che è critica, ma che è anche aperta, infatti, il multisala offre comunque un tipo di esperienza e di intrattenimento diverso, che per molti versi è assai più divertente e comodo. Anche il cinema, quando è nato, ha determinato la crisi delle compagnie di teatro di strada o roba simile. Ed in ogni caso la chiusura dei cinema dipende più dalla espansione della televisione e del videoregistratore durante gli anni ’80, che dalla nascita dei cinema multisala. Senza contare che dietro certe trasformazioni ci sono processi economici complessi contro i quali non ha senso fare battaglie a priori e assai meno fondare teorie su un rifiuto della contemporaneità. Si tratta però di verificare se e come la progressiva concentrazione delle funzioni all’interno di pochi grandi contenitori dispersi in periferia, non intacchi alcune delle qualità minori e diffuse proprie dello spazio urbano.
P: Attraverso l’analisi si arriva a una sintesi, quali sono le vostre conclusioni rispetto al progetto partito da una pagina del ’72 del Secolo XIX?
G. A12: La scelta di osservare un solo tipo di manufatto, il cinema, ci ha obbligato a muoverci attraverso tutto il territorio urbano della città. I cinema di seconda visione, parrocchiali e di quartiere erano dispersi ovunque. Avendo esplorato tutte le zone di Genova, abbiamo incontrato la conferma di una crisi profonda della città, di cui difficilmente si intravedono possibilità di risollevarsi. Soprattutto si nota, anche nelle trasformazioni e riqualificazioni urbane più recenti, la mancanza di fantasia e di coraggio. Oltre ad un’idea stereotipata di città d’arte e turismo che coincide solamente con il centro storico e con pochi negozi di souvenir non c’è nulla, mentre basta fare un giro del porto in battello per accorgersi che la grande dimensione industriale di Genova è assai più emozionante di qualsiasi vicolo. Infatti, i silos granari di Ponte Parodi vengono abbattuti, mentre in pieno centro storico si ricostruiscono inutili volumetrie in stile antico (o presunto tale) togliendo quel poco di luce ed aria che le vicissitudini della storia hanno restituito. Il generale processo di sostituzione delle attività industriali o connesse con il porto, sta determinando solamente un nuovo gigantesco territorio del consumo, caratterizzato da enormi contenitori commerciali (tra questi anche i cinema multisala). Muovendosi lungo la costa verso ovest, dal Porto Antico, si può arrivare sino all’ipermercato di Pontedecimo, passando da un centro commerciale ad un altro (Fiumara e Campi sono le tappe intermedie). Genova si sta ripiegando sempre più su se stessa, il centro imbellettato ed i quartieri, anche quelli più signorili, abbandonati al loro destino. In quest’ottica la strategia militare del G8 (con la contrapposizione di zona rossa e terra di nessuno) è perfettamente rispondente all’idea di città che Genova esprime in questo momento.
P: Per l’invito di Pinksummer avete scelto un’immagine tratta da “I mostri” di Dino Risi con Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. L’avete considerata solo perché il film era in programmazione a Genova in quel dicembre del ’72 o per quali altri motivi?
G. A12: In realtà non era in programmazione in quel periodo, si tratta quindi di una operazione di puro spiazzamento, così come lo è l’episodio della “vecchia” gettata in piscina che abbiamo scelto. Ci piace però l’autoironia e il fondo di ottimismo che trasuda da un film come “I mostri”: manifesta una capacità ed un interesse per guardare a se stessi, che in generale pare assente nella produzione culturale italiana di oggi.
P: La pagina del Secolo XIX da cui siete partiti diventerà un lavoro?
G. A12: Se per lavoro intendete un “opera” o “pezzo” no, dato che è solo parte del progetto più complesso che presentiamo in galleria da voi. Se intendete che Il Secolo XIX diventerà Il Lavoro (inserto de La Repubblica), nemmeno. Se però trovate qualcuno che se lo vuole comprare a tutti i costi se ne può riparlare.
P: Il curriculum del gruppo A12 è costituito prevalentemente da mostre pubbliche, Pinksummer è una galleria commerciale. Che garanzie può dare un gruppo al collezionismo privato?
G. A12: Diremmo nessuna, ma è una bella scommessa, anche perché nella storia dell’arte moderna e contemporanea, quasi nessun artista agli inizi della sua attività offriva alcun tipo di garanzie al mercato. Inoltre potrebbe accadere che il gruppo vada in pensione prima della nostra morte fisica, quindi le quotazioni aumenterebbero in anticipo.
I membri del Gruppo A12 sono :
Nicoletta Artuso
Andrea Balestrero
Gianandrea Barreca
Antonella Bruzzese
Maddalena De Ferrari
Fabrizio Gallanti
Massimiliano Marchica