Gruppo A12 – Heebies-Jeebies
Pinksummer: “Abbiamo sempre inteso il lavoro “artistico” di Gruppo A12 come complementare, in senso analitico, a quello di architetti. L’immagine che avete scelto per l’invito della seconda personale da pinksummer dal titolo Heebie Jeebies è il ritratto del filosofo scienziato giansenista Blaise Pascal. Pascal è l’autore del “Saggio sulle coniche” e del “Trattato del vuoto”entrambi volti a provare appunto l’esistenza del vuoto contro la sua negazione da parte degli aristotelici. Pascal affermava che l’uomo, che definiva canna pensante, è smarrito in un orizzonte infinito il cui simbolo è un cerchio il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. Raccontate perché avete scelto il ritratto di Pascal per l’invito e qual’è il significato del titolo heebie jeebies”.
Gruppo A12: “Partiamo dal titolo che è strettamente legato al tema intorno a cui ruota la mostra, ovvero i malesseri di origine psicologica (fobie nei casi più gravi) legati allo spazio: heebie-jeebies è un termine colloquiale inglese che significa ansia, disagio psicologico. Il termine ha un’origine piuttosto curiosa, essendo stato coniato intorno al 1923 da Billy De Beck un disegnatore di cartoni animati all’epoca assai popolari, tra cui “Barney Google” in cui appunto tale espressione venne utilizzata per la prima volta.
Nel 1926 Heebie jeebies divenne il titolo di un brano jazz di successo, eseguito tra gli altri da Louis Armstrong, alla fine il termine divenne di uso comune e ufficializzato. Il titolo trae dunque origine dalla cultura popolare ed ha un suono buffo, ci divertiva associare ad esso il ritratto austero ed un po’ inquietante di Blaise Pascal, non tanto in riferimento al contenuto dei suoi scritti, ma come caso illustre di fobico spaziale grave. Pare infatti che in seguito ad un incidente in carrozza, Pascal fosse costantemente perseguitato dal terrore di trovarsi sul bordo di un precipizio e che pertanto usasse porre sempre una sedia o altri oggetti ingombranti accanto a sé come protezione. Non sappiamo se vi sia un legame tra le due cose, ma è interessante che una persona che ha dedicato parte della sua vita allo studio del vuoto fosse ossessionata dall’idea di precipitarvi…”
P: Anthony Vidler in “Warped Space” afferma che paura, ansia ed estraniamento e le loro controparti psicologiche, nevrosi e fobie, sono collegate all’estetica dello spazio e in particolare sono endemiche alla metropoli moderna. L’idea di metropoli secondo voi rappresenta una forma di astrazione culturale in antitesi all’idea di natura come stato ideale?
G.A12:Ci sembra più vero il contrario nel senso che il concetto di natura in termini culturali è ricorrente come luogo ideale di fuga e liberazione dalle costrizioni della vita “organizzata”. Età dell’oro, paradiso terrestre, arcadia, panteismo, ecc. hanno accompagnato la storia della cultura occidentale in varie epoche e idee analoghe ricorrono anche in culture differenti.
Anche l’immagine, mediamente piuttosto stereotipata e ottocentesca, che abbiamo della natura, come ci insegna la storia dell’architettura del paesaggio, è quanto di più sofisticatamente artificiale si possa immaginare. Nella natura probabilmente dureremmo assai meno che nelle nostre poco rassicuranti metropoli, tant’è che alcune fobie legate allo spazio, magari provocate dallo “stress della vita moderna”, potrebbero essere riconducibili a ricordi ancestrali legati ad un istinto di sopravvivenza. La natura, quella vera, uccide!
L’estetica dello spazio sembra correlata agli equilibri sociali di un’epoca. La prospettiva rinascimentale in cui tutte le linee convergevano verso un unico punto di fuga è estremamente rassicurante, mentre la sensibilità nevrotica che caratterizza l’architettura dal barocco fino alla modernità, in cui il vuoto si manifesta spesso come nulla, destabilizza. Credete che si possa leggere la psicologia dei tempi attraverso un’attenta analisi architettonica e urbanistica.
Lo spazio costruito è un prodotto culturale come altri. In quanto tale contiene informazioni sulla società che lo ha generato ed è passibile delle più disparate analisi, interpretazioni ed esegesi. Per noi è essenziale non dimenticare che qualsiasi atto analitico è condizionato sia dal suo oggetto che dal soggetto che lo compie.
P: Rispetto al percorso di Gruppo A12, anche solo riflettendo sulla personale da pinksummer del 2002 dal titolo 12-11-1972, incentrata sull’analisi sociale comparativa tra il passato e il presente, a partire dalle trasformazioni e logistiche e di destinazione d’uso delle sale cinematografiche presenti a Genova in quella data, il vostro lavoro sembra presentare uno sviluppo rarefatto in senso filosofico.
Stiamo pensando al labirinto, con tutte le sue implicazioni simboliche, costruito su commissione per il giardino del Kroller Muller e anche, a priori, alla risposta ludica alle nevrosi contemporanee legate allo spazio di heebie-jeebies. Tale sviluppo in senso autonomo è legato alla specificità dei temi trattati o è da intendersi come un progressivo distaccamento dall’imprinting social-urbanistico di Stefano Boeri e più in generale della facoltà di architettura di Genova?
G.A12: Ogni percorso creativo deve trovare necessariamente un’evoluzione altrimenti finisce per cristallizzarsi in maniera. 12-11-72 fa parte di un ciclo di lavori sul tema delle trasformazioni dello spazio urbano basati prevalentemente su operazioni di osservazione e interpretazione più libere ed eterodosse rispetto ai metodi propri della nostra disciplina di origine.
È vero che recentemente nei nostri progetti questi lavori hanno ceduto il posto ad altri: per mantenere alta la spinta alla sperimentazione avremmo dovuto renderli in maniera più sistematica il centro del nostro operare, affrontandoli con un approccio da agenzia di ricerca, mentre ci interessava maggiormente concentrare le nostre energie verso altre forme di riflessione e modi di intervenire sullo spazio urbano e le sue trasformazioni.
Questo non significa necessariamente una caduta di interesse sul tema in sé che magari potrà tornare in forme diverse nei lavori futuri. In realtà comunque, se proprio vogliamo parlare della nostra formazione, hanno pesato in maniera altrettanto rilevante anche altre esperienze ed altri personaggi che ci hanno dato un’impostazione solidamente ancorata alla disciplina architettonica in senso “tradizionale”, che si manifesta principalmente nel metodo con cui affrontiamo ogni progetto. In ogni caso, forse proprio per il fatto di essere un collettivo, non ci risulta sempre facile leggere un’evoluzione così lineare nel nostro percorso.
Senza dubbio vi sono alcuni capisaldi teorici intorno a cui ruota la nostra ricerca, che si è caratterizzata forse in una progressiva tendenza, con il passare degli anni, alla sintesi concettuale, un asciugarsi più che rarefarsi, nel rispetto di un principio di economia (massimo risultato con il minimo impiego di risorse) in senso comunicativo. Il nostro atteggiamento è spesso piuttosto pragmatico, ad esempio nel caso del Kroller Muller il tema simbolico del labirinto era un punto di partenza dato, di cui abbiamo offerto un’interpretazione forse tra le più puramente architettoniche di tutto il nostro lavoro.
Nel caso di heebie-jeebies il tema è coerente con uno dei capisaldi di cui dicevamo, ovvero la centralità del fruitore rispetto alla creazione e trasformazione dello spazio. La questione dei disturbi dello spazio o malattie dello spazio trova origine anche in alcune riflessioni che abbiamo condiviso molti anni fa sul linguaggio architettonico e sulla possibilità di considerare lo spazio come un elemento dotato di un suo significato autonomo. L’aspetto per noi interessante, operando in un contesto complementare, come lo avete definito, rispetto all’architettura è proprio la possibilità di rimescolare le carte ed affrontare certe tematiche con strumenti completamente differenti, “aggirando” gli ostacoli che le certezze disciplinari talvolta costituiscono.
P: Cosa presenterete da pinksummer?
G.A12: Heebie-jeebies è un lavoro incentrato sullo spazio, affrontato partendo dalla sua negazione, ovvero da quelle che possono essere considerate forme di “rifiuto” nei suoi confronti. Quello che ci ha interessato di questo aspetto è la sua sostanziale ambiguità. Da un lato tutti, chi più chi meno, hanno provato l’esperienza di una qualche forma di “disagio” legata alle condizioni spaziali, percependo in questo modo la “potenza” dell’elemento spazio, anche in termini non necessariamente negativi, rispetto alla possibilità di raggiungere effetti architettonici particolarmente efficaci, ampiamente sfruttati da architetture del passato come del presente (senza addentrarsi in ragionamenti complessi sulle spazialità contemporanee, basta ricordare che è uno degli elementi alla base del concetto di “monumentalità”). Dall’altro lato è assai arduo definire in modo netto il limite delle nevrosi prendendo come punto di partenza le caratteristiche dello spazio ed anzi, dal punto di vista clinico, non sembra esserci in termini generali una distinzione precisa tra le fobie legate allo spazio e quelle legate ad altre situazioni od oggetti. L’elemento soggettivo appare quindi in questo caso prevalente.
Ci siamo sforzati di affrontare questi aspetti senza introdurre nel lavoro la medesima ambiguità tra spazio e soggetto. Abbiamo pertanto realizzato una serie di oggetti, molto diversi tra loro, accomunati dal fatto di funzionare come “amuleti” contro le fobie legate allo spazio, facendo ricorso a meccanismi quali la contrapposizione, la distrazione, la compassione, la comprensione.
Un “traccia tempo-spazio” per non perdere la strada e non oltrepassare il limite oltre il quale non ci si può spingere in spazi sovraffollati; una “parete portatile” per non cadere in baratri immaginari; una “camicia di debolezza” per affrontare in due l’angoscia di percorsi ansiogeni; un “correttore di grate” per esorcizzare la vertigine del vuoto; un bracciale/rosario con “ciondoli di difesa” da sgranare per ridurre a icone addomesticabili le diverse paure; un “metro multiplo” per ricondurre a misure note distanze incommensurabili; un “tracciatore” per illuminare con la luce della ragione ostacoli complessi, applicati a spazi della nostra quotidianità od a luoghi specifici, simbolo di condizioni spaziali limite, sono tutti strumenti di un esorcismo compiuto “sullo” spazio “attraverso” i soggetti che lo abitano.
Lo spazio ha caratteri suoi propri, una sua autonomia specifica, ma non si può che leggere e interpretare in relazione a chi lo usa, lo abita, lo percepisce. Le relazioni che si instaurano sono assolutamente personali e spesso insondabili. Come le fobie, e i modi per allontanarle.