Tobias Putrih – Spogliando un vicino
Pinksummer: Iniziamo questa conversazione “con il piede sbagliato” parlando di bellezza, una volta affermasti a proposito dei tuoi lavori: “quando mi viene da esclamare ‘che bello!’ penso di aver cominciato con il piede sbagliato. Sento che devo ricominciare da capo”.
E’ difficile pensare alla bellezza come a un attributo meramente accidentale del tuo lavoro, di fatto le tue opere sono oggettivamente belle, e tale ricorrenza della bellezza noi non siamo in grado di leggerla diversamente da un indizio di intenzionalità. E’ anche vero che le neuroscienze cognitive tendono a spazzare definitivamente l’io e forse anche l’anima dall’orizzonte di un cervello inteso come materia tendente a decidere attraverso algoritmi di tipo deterministico, come dire che non facciamo quello che vogliamo, ma vogliamo quello che facciamo, e in questo senso ti si potrebbe sollevare dalla responsabilità della bellezza intenzionale. Che dici?
Tobias Putrih: Sì, suona come una cattiva scusa. Credo di essere ancora molto responsabile per le mie decisioni. Solo mi risulta difficile relazionarmi ad una “ bellezza oggettiva”. Quello che mi interessa di più è essenzialmente il meccanismo di risposta dell’osservatore – la relazione dell’osservatore con un oggetto o un’immagine e la capacità quasi magica dell’oggetto di acquisire un potere sull’individuo. Dal feticismo merceologico di Marx, alla magia simpatica di Frazer, al lavoro di Benjamin sulla mimemis, la modernità ha cercato di capire e in un certo senso appropriarsi del potere degli oggetti e delle immagini. In quel senso la “bellezza” può essere considerata un richiamo, uno spettacolo, un meccanismo di intrappolamento che viene sempre introdotto con scopi specifici e un po’ oscuri. Dal punto di vista biologico di base, quando per esempio si parla di accoppiamento animale, questo scopo può essere chiamato riproduzione. Si può anche chiamare strategia di marketing aziendale quando si scarta un nuovo ipad. Tale bellezza è una categoria secondaria, e il suo diretto riconoscimento è sempre problematico. Ovvero, posso confessare che il lavoro sia “bello”, ma si può anche chiamare bellezza strategica e al di là di quello non si può sapere se io vi stia ingannando oppure no.
P: Sempre a proposito di attributi formali, gli ermeneuti si sono trovati spesso a parlare di ambiguità in relazione, crediamo, al tuo utilizzo di materiali semplici quali cartone, polistirolo, compensato, organizzati in forme altamente complesse che rimandano addirittura al divenire organico del design parametrico. In maniera assai candida una volta dicesti che la componente fisica del tuo lavoro ha un fondamento di tipo squisitamente situazionale: considerando che in Slovenia il mercato dell’arte non è molto sviluppato, lavorare con materiali a basso costo ti ha permesso di contenere l’investimento iniziale nel lavoro, rassicurandoti. Rispetto alla complessità, essa potrebbe forse dipendere dal tuo rapporto aporetico con l’oggetto. Sembra infatti che tu voglia creare “l’illusione fatalistica” che la materia contenga in sé la possibilità di generare forme. Parlaci in questo senso anche della tua collaborazione con i Mos.
T.P: Bè, sì, forma e sostanza sono strettamente collegate, nel senso che alcune forme portano ad un materiale specifico in maniera più naturale di altre. La decisione di realizzare un oggetto è in un certo senso sempre basato sull’economia. Specialmente per quanto riguarda la scultura bisogna pensare al peso, alla misura, all’imballaggio, perchè ognuna di queste voci ha un costo. Gli oggetti riguardano i limiti – quanto pesante e largo può essere l’oggetto perchè passi dalla porta del mio studio, chi lo conserverà, quale può essere la differenza tra rifare l’oggetto o conservarlo, quanto durerà il materiale, ecc.
Per esempio – in uno spazio a gravità zero, l’idea stessa di scultura non avrebbe più senso. Il peso è una delle caratteristiche chiave che la scultura condivide con l’architettura. La questione riguardo il peso e l’equilibrio è stata anche il punto di partenza della mia collaborazione con il gruppo di architetti MOS. Quello che ci interessava era il confine sottile tra la stabilità e il crollo. In che modo mettiamo insieme le cose e per quanto tempo possono durare. Il progetto era un riferimento al parcheggio brutalista costruito da Owen Luder a Gateshead, non lontano dal museo, che stavano demolendo mentre era in corso la nostra mostra. Ci sembrava uno spreco tale di materiale costruire un enorme edificio di cemento che sarebbe durato solo 40 anni. Ma questa è la storia dell’architettura – riguarda per quanto tempo le strutture vengono abitate, per quanto tempo se ne avrà cura per mantenerle vive e sane.
P: Rispetto al tuo “anacronismo modernista”, alla resistenza alla forma finale, all’attrazione per l’idea di modello rispetto all’architettura compiuta dell’edificio, e infine anche alla tensione per l’entropia, il collasso, il fallimento, la perdita in generale contenuti nel tuo lavoro, ma in specifico stiamo pensando a progetti quali Overhang in collaborazione con i Mos presentato al Baltic, ma anche a Quasi-Random (Study on Buckminster Fuller’s Cloud Nine Project). Alcuni hanno affermato che tu sia stato condizionato in questo senso dal crollo dell’utopia socialista, proiettandolo su quello dell’utopia liberista incarnata dal modernismo accelerato dall’economia post ’29. Tutte le grandi idee sono destinate a fallire quando si scontrano con la realtà?
T.P: Credo che le idee debbano essere viste da una prospettiva più dinamica. In questo senso credo fortemente in un punto di vista di Tatlin – che dobbiamo prima di tutto progettare l’impossibile e poi pensare alle sue possibili implicazioni. E il lavoro di Tatlin è quanto di più entropico possibile – riguarda il fallimento e l’impossibilità, ma è anche sistematico e costruttivo. E’ la questione di come mettere insieme le cose che dovrebbe essere migliorato e funzionare in futuro. In questo senso il fallimento di un esperimento è sempre una lezione. Anche oggi se guardiamo al programma spaziale russo a Star City vicino a Mosca – se, nella storia di un programma spaziale un astronauta avesse commesso un errore, questo errore sarebbe stato analizzato, rinominato in base alla persona che lo aveva commesso e insegnato ai futuri astronauti. E’ la storia negativa, entropica, che alla fine ha a che fare con il miglioramento sistematico della conoscenza.
P: “Spogliando un vicino”, questo è il titolo, che hai voluto in italiano, del progetto che presenterai da pinksummer. Chi è il vicino in senso assoluto. Ci racconti questo progetto.
T.P: Ci siamo trasferiti in un appartamento a Cambridge, in Massachusetts, e una finestra del nostro soggiorno è affacciata sulla casa di legno ricoperta di assi. Questi creano motivi semplici e curve. C’è quasi una giocosità naïve nella semplicità e nel carattere improvvisati di questa casa di legno. E ovviamente il costruttore voleva aggiungere qualcosa in più – voleva aggiungere una superficie, per proteggere la casa all’interno, ma per renderla allo stesso tempo comunque attraente.
Già all’inizio avevo capito quanto fosse piuttosto strano guardare, studiare la casa dei propri vicini, perché non importa quale potrebbe essere la mia scusa, non posso negare che io stia guardando attraverso una lente e osservando il mio vicino senza che lui ne sia a conoscenza. Bè, sto decodificando un decoro di assi, cercando di risolvere il mistero scritto sulla sua superficie. Sto solo analizzando, cercando di capire, o no?
Significa che sto realizzando un modello, costruendo assi quali sostituti, attaccandoli e staccandoli, giocando e testando. All’interno della galleria questo gioco prende un’altra forma – porto l’oggetto in galleria, lo spoglio e sistemo i pezzi sulla parete secondo un motivo, con l’idea di creare uno scambio fluido, una specie di relazione tra l’oggetto e le sue parti.