Jorge Queiroz – Blink

Comunicato stampa

 

Pinksummer: D’acchito, se ci capitasse sott’occhio un tassello di un puzzle, potremmo definirlo astratto, considerando che difficilmente una minuscola parte rilascerebbe l’immagine intera. Astratto è un aggettivo un po’ alieno, i numeri in fondo non sono più astratti delle parole, dire “uno” o dire “mela” è sempre una questione di vocali e di consonanti, entrambi sono riconducibili all’azione del nominare, una sorta di scorciatoia sospesa tra il particolare e l’universale. Il mondo, checché se ne dica, sarebbe forse esistito alla stessa maniera senza nominarlo: le astrazioni non sono poi così fondanti per l’esistenza come le allegorie ci fanno credere. Lo sono forse alla politica, che almeno qui in Italia sembra organizzare veri e propri festini dionisiaci sulle astrazioni, senza minimante tenere conto del mondo, ponendo che sia mai esistito e non che stia solo sbiadendo per gli incendi in Amazzonia e il climate change, e perché noi umani, che siamo davvero tanti, ce lo stiamo masticando, ognuno a suo gusto, servito come contorno ornamentale delle statistiche coltivate in serra come fossero ortaggi fuori stagione.

All’interno di un’altra Storia, considerata decisamente più minuscola, la storia dell’arte, Wihelm Worringer in Astrazione ed Empatia, opera cresciuta a valle delle teorie freudiane e del rapporto antitetico tra dionisiaco e apollineo su cui si fonda La Nascita della Tragedia di Nietzsche, pone diversamente la questione dell’astrattismo, affermando che è assai più spontaneo lo stile geometrico di qualsivoglia naturalismo. Secondo lo storico dell’arte tedesco, l’astrattismo è una sorta di appercettivismo tipico dei popoli poco progrediti, che avvertono un’empatia latente o negativa con l’ambiente circostante e che pertanto necessitano di costruirsi una sorta di rifugio temporaneo, ordinato e pulito, se vogliamo semplificato dalla sintesi, rispetto alla caoticità del mondo, con lo scopo di controllare l’ansia. In Europa si è passati dal naturalismo all’astrattismo, in qualche modo mitologizzandolo; nell’epoca della rivoluzione industriale alcuni artisti straordinari volevano rinfrescare, iniettando la vitalità delle civiltà primitive, un mondo alienato dalla ripetitività e dalla bruttezza del ciclo produttivo della catena di montaggio, di cui peraltro non si riusciva a percepire che un solo tassello del puzzle. Può esistere l’idea di astrattismo in rapporto al significato? Di fronte a un tuo dipinto dovremmo chiederci cosa rappresenta o come funziona?

 

Jorge Queiroz: Il modo per vedere il mio lavoro, direi, è ascoltare quello che ne dice chi lo vede. Il lavoro attende di essere terminato da chi lo guarda.

Direi che è un viaggio mentale romantico, attraverso le relazioni tra idee e idee di figure e un mare di immagini, nel viaggio su strada i colori che fondono il sole e la pioggia in paesaggi iperstimolati.

Non ho un solo modo di leggere il mio lavoro, e ne sono molto contento.

L’idea di astrazione nel mio lavoro non è opposta alla figurazione o all’immagine, è qualcosa di più caotico e senza forma, e sperimentale, è essenziale per connettere tutti i pensieri della mente.

 

PS: Molti testi che abbiamo letto su di te premettono quasi sempre che la tua pittura cresce nella zona di confine tra l’astratto e il figurativo. Se di confine o di confini si deve azzardare, sul piano plastico in cui organizzi la tua immaginazione baluginante, ci verrebbe da dire che l’unico confine è quello che cercano di stabilire caparbiamente le tue forme e i tuoi colori, quando riescono a emergere dallo sfondo, facendo intravvedere in quel baleno quanto sia meravigliosamente eroica e tragica e provvisoria l’individualità.

Dell’informale rispetto alla pittura abbiamo inteso che si tratta di un territorio coltivato duramente, come un terreno impervio in cui il caos va tenuto seriamente a bada, con una griglia potentemente strutturata. Non abbiamo mai capito se è un luogo ostile o semplicemente un posto dove tutte le speranze vorrebbero vivere contemporaneamente, come dentro al brodo primordiale. Succede davvero di tutto nei tuoi dipinti, e alcuni enigmi nella smania di essere, di esistere, s’imprimono nella retina come se si trattasse di energia radiante, per poi scomparire lievi rilasciando la sottile malinconia della dissipazione.  Bisogna essere progrediti se non proprio saggi, o anche incoscienti per non tener conto della natura liquida di un orizzonte. Tutto quello che accade si può sciogliere di nuovo nello sfondo, con il soffio debole ma pericoloso dell’eccedenza.

In un certo senso l’informale/barocco, intesi come categoria assoluta, e l’astrattismo non sono nell’arte due antitesi eterne che si alternano nel tempo e si ripetono sempre uguali, ma ovviamente diverse, come se fossero i Big Bang e i buchi neri (espansione e contrazione) degli universi non rappresentati?

 

JQ: Sì, è un luogo di opposti, dove esilio e appartenenza sono visioni antitetiche e questo stimola il mio lavoro.

Non ho uno stile particolare, ma l’approccio delle stesse idee è visitato molte volte, in momenti diversi, la malinconia è l’atmosfera dello stato d’animo, sono anche gli ingredienti per la costruzione delle forme e dello spazio nel mio lavoro.

 

PS: Sei il primo pittore, pittore-pittore, che presenteremo da Pinksummer. Abbiamo sempre pensato alla pittura come a una sorta di wormhole: un abisso con leggi singolari e intime che riconducono ogni genere di profondità, compresa quella dei tempi o del Tempo alla piattezza fisica della superficie. Leggi della cronotopo-pittura che un pittore-pittore deve conoscere, eventualmente, anche per riuscire a eluderle, ma accade di rado, come se si trattasse più di una grazia che di una benedizione. C’è la credenza popolare, ma sappiamo che non è vera, che la pittura, forse per quell’assommarsi della sintassi, sia una lingua che richiede tempo per essere assimilata e fatta propria e che i pittori, tra gli artisti, diano il meglio di sé in tarda età, magari perché la vecchiaia è incline alla lentezza e al ripensamento come il colore a olio o semplicemente perché la fine, quando arriva bene, induce all’essenziale. Non credi che la pittura sia un modo particolarmente intimo di approcciare lo spazio-tempo con l’ossessione di organizzarlo in paesaggio? Hai mai guardato al paesaggio assumendo fin dove è possibile lo sguardo di altri artisti, pittori, che ti hanno preceduto o che ti sono contemporanei? Non immagini che un giorno rappresentando uno dei tuoi paesaggi simultanei potresti incontrare te stesso in ogni singolo punto della tua esistenza, anche quella futura come nei film di fantascienza?

 

JQ: Sì, credo che la pittura sia camminare nello spazio-tempo della nostra esistenza, che riflette, genera, distrugge e riconsidera la condizione dell’invenzione e dei suoi strumenti e della pittura lungo il suo cammino.

 

PS: Un piccolo bellissimo racconto in forma epistolare dal titolo Il Fucile da Caccia, scritto nel 1949 dal critico d’arte e poeta Inoue Yasushi, ci ha suggerito di chiederti se un Gauguin può essere più o meno intonato all’atmosfera serena di un ambiente di un paesaggio sotto la neve di Vlaminck? E, anche: se dovessi decidere a priori preferiresti amare o essere amato?

 

JQ:

PS: Ci racconti della mostra da Pinksummer? Avrà un titolo?

 

JQ: Blink è il titolo della mostra. Fin dall’inizio della preparazione per questa mostra, nelle prime settimane di marzo, ho deciso di lavorare a casa, vicino al mare. Ho trascorso il tempo lavorando ai dipinti, camminando e guardando il mare, cercando di trovare un haiku e trasferire quell’idea dentro il mio lavoro, e nel luogo dello spazio espositivo. Questo è stato il mio punto di partenza e la mia idea guida. Era un pensiero intimo e non ero sicuro nel mio intento di farne un’immagine:

 

Un pomeriggio di lavoro

Nell’angolo dell’occhio.

Bagliore

 

Ho creato l’haiku e trovato il titolo della mostra, Blink.

Questo haiku ha rivelato il mio lavoro e stabilito echi per le differenti relazioni al suo interno: alcune più reali, altre meno reali, tra quelle ci sono i colori, la dimensione, la superficie e la linea, che presentano idee visive.

La densità di segni consente diverse possibilità in un disegno o in un dipinto, nella mia testa non è soltanto un modo di fare, ma un modo per i sensi di lavorare insieme.

Il carattere del lavoro è anche definito dal modo in cui è realizzato. Il contorno rivela ciò che è necessario, niente di più e niente di meno. Ho iniziato a rimuovere ciò che copre una struttura che già esiste nella mia mente.

Non è un semplice trapianto di forme, oggetti o situazioni già nella mia mente. Ciò che è fatto, ciò che potrebbe essere fatto, è il segno lasciato dal mio modo di fare.

Non un’immagine tecnica dove esiste una gerarchia di valori possibili, dove i dettagli possono essere inferiori alle forme, o alle forme che possono reagire soltanto allo spazio sovversivo da cui sono dominate, uno spazio continuo, nessuna componente è neutra, ciò che hanno in comune è più di ciò che le divide. Le cose che creano la forma, e questa crea lo spazio, sono sempre a mi disposizione come su un palcoscenico in movimento.

 

 

Jorge Queiroz, settembre 2019, Colares