Mariana Castillo Deball – In a Convex Mirror

 

COMUNICATO STAMPA

 

Opening: 2 dicembre 2022, h 18 – 21

 

Le parole “oggetto” e “cosa” hanno origini etimologiche differenti che, come affermava il filosofo Remo Bodei, il tempo ha confuso intorbidendone il senso e i significati: “oggetto” è un termine introdotto dalla scolastica medievale che deriva dal latino “ob-jectum”, letteralmente “gettato davanti”; l’oggetto si oppone al soggetto, è una sorta di ostacolo, di impedimento e la lotta si conclude con l’assimilazione e con l’asservimento dell’oggetto al soggetto. “Cosa” deriva dal latino causa, discutere, ragionare, deliberare, la cosa è ciò che ci sta a cuore, con la cosa si ha in qualche modo un rapporto affettivo. Mariana Castillo Deball agisce la transustanziazione degli oggetti che definisce “Uncomfortable Objects” in cose, smontandoli, duplicandoli, per assimilarli nel suo metabolismo con la pratica del fare oltre a ogni infatuazione teorica, un fare atto a liberare l’essenza intangibile degli oggetti per trasformarli in cose con pazienza e dedizione. Gli oggetti non confortevoli sono quelli di cui è difficile tracciare una biografia perché decontestualizzati e classificati in modo cronologico e morfologico alla maniera, senza dubbio, eurocentrica. Si potrebbe azzardare che Mariana Castillo Deball, ripercorrendo le tecniche che hanno dato origine a quegli oggetti, crei una teoria fisica antimaterialista della cultura materiale. Gli oggetti, di fatto, sono lavoro cristallizzato, rappresentano lo scendere a patti dell’uomo con la materia e di conseguenza con la natura. Talvolta abbiamo il dubbio che l’interesse di Mariana Castillo Deball per la cultura materiale rimandi anche alla deculturazione tecnica della società contemporanea non più in grado di lavorare con le mani e servita da meccanismi che sfuggono alla capacità di controllo dei cittadini, della collettività. Tale sistema implica l’alienazione del soggetto produttore. Il regime di iper-capitalismo vigente, costituito dal proliferare di oggetti, conduce a una sorta di feticismo delle merci. Le merci non incorporano più la cultura dei lavoratori, ma l’istanza del profitto che le produce. Mariana Castillo Deball con la sua ricerca e il suo fare si oppone al colonialismo in generale, e più specificatamente alla colonizzazione del pensiero del cittadino-consumatore rispetto a un benessere fasullo, costruito sullo spreco asimmetrico di una parte di abitanti umani del mondo, alle spalle di tutti gli altri di ogni specie e latitudine. La cultura materiale del passato con le sue tecnologie di sentimento collettivo e di cooperazione è una via per ripensare gli spazi e la Storia, perché l’oggetto è meno statico di quanto si pensi sia concettualmente che fisicamente: le cose hanno compiuto vari percorsi, incorporato molteplici strati di senso e, talvolta si ha a che fare, come nel caso della ceramica, con universali antropologici che disegnano geografie inattese al di là di ogni pretesa eurocentrica.
Lo sguardo antropologico di Mariana Castillo Deball è focalizzato sul lavoro, sulla materia sulla natura. I luoghi di elezione della sua ricerca sono l’antropologia, l’archeologia, la paleontologia, i musei e le collezioni di arti applicate e quelli della scienza, ogni dove si trovino oggetti, utensili frutto di processi produttivi artigianali e tradizionali che incorporano saperi tecnici di cooperazione collettiva, oggetti con cui l’artista interagisce, adottandoli, adattandoli, traducendoli e appropriandosene per narrare una storia relativizzata e riformando nel contempo l’eurocentrismo della Storia. Mariana Castillo Deball libera l’essenza intangibile degli oggetti, affrancandoli sia dal loro valore d’uso e di scambio per cui sono stati costruiti nelle comunità di origine, che dalla classificazione positivista dei musei o delle collezioni in genere, ridisegnando gli spazi. Castillo Deball ben sa che mettere o rimettere le cose al loro posto conferma l’ordine sociale e culturale stabilito; pertanto, allontana il più possibile le cose dai posti convenuti. Liberare gli oggetti trasformandoli in cose è una pratica rituale dell’arte di Castillo Deball per liberare il pensiero, per farlo respirare e avere un rapporto più naturale con il mondo che ci circonda. Il lavoro di Mariana Castillo Deball, ragionando e deliberando sulle cose, rappresenta un curioso o meglio surreale studio sulla cultura materiale, giacché gli oggetti informano le nostre vite, le nostre politiche e indicazioni di genere. L’opera di Castillo Deball con il ragionamento pratico si focalizza anche sullo spreco. Qualcuno ha detto che l’uomo è un essere famelico anche di fami future, che hanno messo e continuano a mettere in serio pericolo la vita ecologica del nostro pianeta. Ciò che accomuna il passato e il presente rispetto alla cultura materiale è lo smaltimento degli oggetti una volta che non si usano più, ma a differenza del presente, in passato c’era una penuria di oggetti che peraltro erano organici, e la morte di un oggetto coincideva con la sua impossibilità di essere riparato una volta rotto: il valore era il risparmio non il consumo. Oggi la morte di un oggetto avviene spesso assai prima della sua irreparabilità, e la nostra civiltà è basata sul consumo di avere, ma anche di essere.
La cultura materiale, gli oggetti, anche quelli che sono più cronologicamente vicini a noi, si sono sempre salvati in modo fortuito, non vengono mai presentati nel contesto di origine e pertanto è sempre difficile ricostruirne la circolazione, senza contare che, rispetto alle collezioni, anche quelle con pretesa scientifica e con una prospettiva analitica finiscono sempre per rappresentare un’autobiografia del collezionista in azione, e vale lo stesso per i musei. La storia relativizzata presentata da Mariana Castillo Debal ha in qualche modo un’autenticità speciale.
Forse perché abbiamo un rapporto affettivo con quell’opera, riteniamo che Distanza e Menzogna, un’opera di Mariana Castillo Deball del 2011, sia emblematica rispetto al rapporto dell’artista con la Storia e la storiografia, in cui la cultura materiale ha assunto un ruolo importantissimo. L’opera presenta una serie di specchi circolari di diametri diversi con appoggiato sopra il calco della mano dell’artista in forma di battaglio, che rimanda all’impossibilità oggettiva di interpretare il passato: sbattendo il battaglio lo specchio andrebbe in frantumi e lo specchio integro non può che riflettere la contemporaneità. Di fatto gli oggetti nel tempo cambiano di significato e anche di valore.
A proposito di specchi la nuova personale di Mariana Castillo Deball da Pinksummer ha per titolo In a Convex Mirror: “Il titolo della mostra” spiega Castillo Deball “muove da un poema di John Ashbery: Self-portrait in a Convex Mirror del 1974, nel quale Ashbery prende spunto dal dipinto datato 1524 del pittore italiano del tardo Rinascimento, Parmigianino. Il dipinto è un autoritratto della sua immagine in uno specchio convesso.
Parmigianino ha usato una superficie di legno semi sferica per il dipinto, replicando la distorsione dello specchio convesso nella forma del dipinto.
Ho letto questo poema per la prima volta quando ero in accademia, più o meno nello stesso tempo in cui ho iniziato a sviluppare le stampe distorte tridimensionali.
Mi piace perché Parmigianino aggiunge un aspetto esistenziale all’idea formale di dipingere su una superficie curvilinea, ponendo l’accento sul ruolo della superficie.

The Whole is instable within

Instability, a globe like ours, resting

On a pedestal of vaccum, a ping-pong ball

Secure in its jet of water.

And just as there are no words for the surface, that is

No words to say what it really is, that it is not

Superficial but a visible core, then there is

No way out of the problem of pathos vs. experience.”

In galleria verranno presentate una serie di ceramiche decorate a ingobbio deformate collegate l’una all’altra in un’installazione aerea con una corda di cotone nera come a creare un campo di forza. Le ceramiche forse di memoria etnografica Zuni, si presentano forate, deprivate della funzione ricettiva di contenitore e pertanto da qualsivoglia valore d’uso o di scambio. Le ceramiche forate “kill hole” si usavano nei rituali di sepoltura nell’America Sud Occidentale, ma rimandano anche a un oggetto matematico, la bottiglia di Klein, su cui Mariana Castillo Deball ha lavorato in passato, avvicinandola alla classica piñata messicana, la pentolaccia, che pone fine al Carnevale e precede la Quaresima, usata dai monaci conquistatori per evangelizzare i nativi americani, attraverso i piccoli doni che la piñata riversava a terra. Di fatto la bottiglia di Klein è una superficie non orientabile in cui l’interno si riversa all’esterno, che proietta al di là delle tre dimensioni euclidee, in una quarta dimensione che la realtà non ci lascia esperire, ma alla quale con il ragionamento, l’oggettività e la fantasia informata da una diversa narrazione è possibile aspirare.
Dentro allo specchio convesso della mostra, si potranno vedere anche dei tondi di tre diversi diametri in forma di tavolette cerate scrittorie, che rimandano alla grande installazione a parete di tavole cerate colorate con pigmento nero, nella mostra di Mariana Castillo Deball dal titolo Roman Rubbish attualmente in corso alla Spazio Bloomberg a Londra. Nel centro di Londra o meglio nel cuore del quartiere finanziario gli scavi di qualche anno fa hanno riportato alla luce 400 tavolette scrittorie romane, il cui legno non si è decomposto perché conservato dal fango del fiume sotterraneo Walbrook che attraversava il centro di Londinium, fondata dai romani nel 43d.C. Mariana Castillo Deball afferma che dai detriti, dagli scarti di una civiltà si può capire molto di più, che dagli oggetti di valore. Le tavolette del Mithradeum non sono state seppellite per qualsivoglia celebrazione sacra, ma sono state semplicemente scartate e adesso costituiscono i più antichi documenti scritti dell’antica Britannia. Di fatto i romani usavano le tavolette di legno cerato inscritte con lo stilus, con una modalità similare alla nostra quando scriviamo i messaggi sul telefonino: nel momento in cui venivano consegnate e lette le tavolette cerate venivano buttate.
“La serie di opere circolari di cera nera” afferma Castillo Deball “sono incise con immagini distorte come viste in uno specchio convesso.
La superficie è nera e l’incisione toglie materiale alla superficie, rendendo l’immagine visibile solo da alcuni angoli, a seconda di come la luce si riflette su di essa.
Le immagini che ho inciso provengono da una serie di incisioni del XVI secolo di Diego Valadés, un frate francescano di cui ho scoperto il lavoro mentre stavo lavorando all’opera per il Padiglione Messicano alla Biennale di Venezia quest’anno. Le immagini raffigurano personaggi che stanno parlando tra loro, ascoltando e scrivendo, ma ciò che esce fuori dalla loro bocca, orecchie e occhi sono strane creature come serpenti, scorpioni e altri insetti.
Queste immagini rappresentano indigeni che stanno diffondendo la parola di pratiche religiose proibite dalla chiesa cattolica. Diego Valadés stava illustrando la sua retorica cristiana con l’incisione, pensando che il popolo indigeno fosse analfabeta, e che il solo modo di comunicarvi fosse attraverso le immagini”.